Ognjen Spahić: letteratura senza recinzioni
Il successo di "I figli di Hansen", ultimo libro di Ognjen Spahić, scrittore montenegrino, ha sorpreso anche l’autore. E’ la storia delle persone rinchiuse, in Romania, in quello che era ormai l’ultimo lebbrosario d’Europa. Un’intervista
"Spahic è una voce di punta di quella giovane generazione intellettuale montenegrina schiettamente moderna e liberaldemocratica, aperta, culturalmente occidentale e affettivamente legata alle proprie origini, che si oppone al tradizionalismo talora regressivo ancor presente nel Paese, un Paese di recente indipendenza e di ancor fragile democrazia." Claudio Magris, Corriere della Sera – 21 settembre 2010
Il suo libro ha già ottenuto alcuni premi, come il prestigioso riconoscimento internazionale all’Ovid Festival e ha raccolto un ottimo successo di pubblico in diversi paesi europei. Se l’aspettava?
Il successo internazionale che ha ottenuto mi ha decisamente sorpreso anche perché non ho mai aspettative quando scrivo. Ne sono felice perché la storia che racconto, di cui ho parlato la prima volta in una conferenza internazionale, passa nelle mani di altre persone che non hanno alcuna informazione riguardo al tema e al contesto che tratto. Il fatto che sia stato pubblicato in molte lingue (romeno, italiano, sloveno, ungherese, macedone, inglese e francese) facilita molto il raggiungimento di questo obiettivo.
Cosa ha significato per lei scrivere questo libro?
Innanzitutto è stato un gran divertimento, oltre che una grande fonte di apertura di visione del mondo. Penso che il libro abbia avuto successo anche perché, come dico sempre in pubblico, scrivo le parole di qualcuno e non i suoi pensieri. Lascio dunque al lettore la possibilità di entrare nel personaggio e sentire gli stati d’animo che quest’ultimo potrebbe provare. Inoltre, lavoro per arrivare ad un obiettivo preciso ma quello che succede alla fine di una pagina o all’inizio di quella successiva non lo so mai. La spinta a scrivere è qualcosa che ho dentro di me, una passione che mi fa crescere e con cui scoprire ciò che mi era sconosciuto. L’aspetto che più mi piace dello scrivere è rappresentato dal fatto che raccontare la storia sconosciuta di qualcuno è come suonare lo strumento di questo qualcuno e farlo echeggiare il più lontano e il più possibile.
Perché ha deciso di parlare dei reclusi nell’ultimo lebbrosario d’Europa, nella Romania alle soglie della fine della dittatura di Ceauşescu?
Ammetto che è stato un caso. Lavoro anche come giornalista e un giorno che dovevo preparare alcuni articoli per il quotidiano in cui lavoravo, cominciai a leggere un lancio della BBC. Parlava dell’ingresso della Romania nell’Unione europea e quindi si affrontava il tema della caduta del regime di Ceauşescu nel 1989. Decisi di non finire di leggere perché non volevo accettare di cambiare la “cartografia” del sud est Europa che ho dentro di me da sempre. E’ da quel giorno che ho cominciato a pensare all’idea del libro.
Come ha reagito il pubblico, nelle presentazioni che ha fatto in Europa?
Ho incontrato di fatto due tipologie di persone. I lettori che vivono la storia del libro come fosse pura fiction, una storia inventata, dall’altra invece coloro che si convincono che dietro al racconto ci sono mesi e mesi di ricerca dettagliata. La verità invece sta nel mezzo. Ma credo sia giusto così: lo scrittore ha il compito di offrire una specie di “registro”, di matrice, lasciando però al lettore la libertà di cogliere, ciascuno per quelle che sono le proprie sensibilità, il proprio significato. Sono convinto inoltre che lo scrittore riesce nell’intento quanto più scrive di argomenti importanti ma usando parole che toccano la sensibilità della maggioranza dei lettori, spingendoli a riflettere su temi complessi.
Lei è un giovane scrittore di uno dei paesi nati dalla dissoluzione della Jugoslavia. Quali influenze ha avuto sulla letteratura, questo processo?
Insisto sempre nel dire che questi recinti nazionali non hanno molto senso. Dobbiamo essere coscienti, per lo meno io lo sono, che siamo scrittori di un territorio che ha una lingua comune in almeno quattro degli stati che facevano parte della ex-Jugoslavia. La lingua in cui si scrive non deve rappresentare una barriera e – per quanto oggi vengano chiamate in modo diverso divise su base geografica tra Serbia, Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina – non mi sento di dire che scrivo in montenegrino… Nel senso che anche se oggi sono “obbligato” a chiamare così la lingua del mio paese, in realtà quando scrivo uso parole, sinonimi e modi di dire che ritrovo in ogni briciola delle quattro fette della stessa torta.
Ritengo vi sia una divisione politica che non corrisponde invece alla letteratura della nostra regione. E’ una divisione voluta soprattutto da coloro che cercano spasmodiche divisioni e i quali, non a caso, spesso non sono ben disposti verso la letteratura. Mentre il panorama della letteratura nazionale montenegrina non può esistere al di fuori di questo contesto regionale.
A proposito del Montenegro: è uno dei paesi del sud est Europa che più procede verso l’integrazione europea. Ritiene che questo percorso abbia aiutato i paesi dei Balcani a ricostruire legami?
Penso che la gente abbia finalmente capito che riavvicinarsi e ricominciare a collaborare sia l’unica via. Personalmente, sono inoltre fermamente convinto che non ci sia altra soluzione. Innanzitutto per quanto riguarda il settore della letteratura, in cui ho qualche competenza. Un’unità regionale che oltretutto ho capito essere percepita come tale all’estero. Nelle diverse presentazioni del libro e nelle conferenze internazionali a cui ho partecipato in molti paesi europei come negli USA, noi veniamo considerati scrittori dell’ex-Jugoslavia. Non veniamo percepiti come appartenenti ad una scena letteraria divisa su base nazionale.
D’altronde le pietre miliari della letteratura della nostra regione, quindi scrittori come Ivo Andrić, Miroslav Krleža, Danilo Kiš, appartengono – e vengono vissuti ancora oggi come tali – alle radici comuni del territorio jugoslavo. Ed è solo attraverso il mantenimento di questa comune origine che abbiamo qualche possibilità di riacquisire pari riconoscimento nel panorama letterario europeo.
E’ anche autore della storia del cortometraggio Sve to (All of that) del regista Branislav Milatović, che ha esordito al film festival di Sarajevo 2012. Oltre ad essere giornalista e scrittore di libri si dedica quindi all’ideazione di storie per lo schermo?
In realtà è stata un’iniziativa presa su spinta di un amico regista, che ha voluto con grande volontà trasformare un mio racconto in un film. E così sono stato anche coinvolto nella realizzazione della sceneggiatura. E’ stata un’esperienza che mi ha divertito molto e poi mi ha soddisfatto nel momento in cui è stato selezionato per il Film Festival di Sarajevo. E’ stato poi selezionato a ottobre dal Festival internazionale del cortometraggio di Rabat in Marocco, e dal Zagreb Film Festival e a inizio dicembre ha partecipato al TIFF – Tirana Film Festival e al Festival internazionale di Zubroffka (Polonia). Forse la chiave del successo sta nel fatto che parla di un tema universale come il legame unico che c’è tra un padre e un figlio.
A quali progetti sta lavorando, in questo momento?
Sto scrivendo un’altra storia per un cortometraggio che verrà prodotto in Croazia. Non so spiegare come mai ma il mio modo di scrivere e le mie storie stanno raccogliendo grande attenzione da parte di alcuni registi, che vogliono portarle sul grande schermo. E’ un percorso sicuramente interessante, sebbene quando il mio scritto viene trasposto in un film la storia non la senta più mia. E dunque, sinceramente, non provo un grande interesse verso l’uso di altri media per far conoscere il mio lavoro. Scrivere e quindi comunicare attraverso la parola scritta, rimane la mia prima e grande passione.
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