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Nuovo governo, vecchia politica in Bosnia

Dopo 15 mesi di stallo, i leader politici bosniaci hanno trovato un accordo per la formazione del governo. La composizione del nuovo esecutivo conferma però la divisione su base etnica delle istituzioni e del Paese

10/01/2012, Andrea Oskari Rossini -

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Il nuovo anno per la Bosnia Erzegovina si apre sotto il segno della speranza. Quindici mesi dopo le elezioni, i sei principali partiti del Paese hanno trovato un accordo che consentirà la nascita di un nuovo governo. La notizia è stata data al termine dell’incontro di Sarajevo del 28 dicembre tra i leader di HDZ (Unione Democratica Croata) BiH e HDZ 1990, SDA (Partito di Azione Democratica), SDP (Partito Socialdemocratico), SNSD (Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti) e SDS (Partito Democratico Serbo).

Il Primo ministro designato dai partiti è Vjekoslav Bevanda, dell’HDZ, economista e già ministro delle Finanze e vice presidente del governo della Federazione di Bosnia Erzegovina (una delle due entità in cui il Paese è diviso) tra il 2006 e il 2010.

Nella conferenza stampa seguita all’incontro di Sarajevo, i leader politici hanno reso nota anche la ripartizione degli incarichi ministeriali. I posti da ministro verranno assegnati su base rigidamente nazionale. I croati, oltre al posto di Primo ministro, hanno ottenuto il ministero della Giustizia, dei Diritti Umani e Rifugiati; i serbi avranno il ministero delle Finanze, del Commercio Estero e dei Rapporti Economici e il ministero degli Affari Civili; i bosgnacchi (bosniaco musulmani) gli Esteri, la Sicurezza, la Difesa, e il ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni.

Il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ha sottolineato la natura di compromesso dell’accordo raggiunto, dichiarando che “nessuno ha ottenuto tutto quello che voleva”. Secondo il quotidiano sarajevese Oslobodjenje (6 gennaio), il Consiglio dei Ministri potrebbe entrare in carica entro le prossime due settimane.

A un passo dal baratro

L’accordo risolve questioni impellenti di natura economica, permettendo l’adozione del bilancio statale e allontanando il rischio di perdere ingenti fondi internazionali. I timori di un collasso finanziario sembrano dunque fugati, per ora.

Secondo quanto riportato dalle agenzie, i partiti avrebbero trovato un accordo anche sui problemi più urgenti attinenti il percorso di integrazione europea. In questo momento, Bruxelles richiede alla Bosnia Erzegovina in particolare di recepire la sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani nel caso Finci-Sejdić, di adeguarsi alla legislazione europea sulla questione degli aiuti di Stato e di organizzare un censimento.

La notizia dell’accordo tra i principali leader politici bosniaci è stata infatti accolta con soddisfazione dal rappresentante della Commissione europea a Sarajevo, Peter Sørensen, dal Commissario all’Allargamento Štefan Füle e dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione, Catherine Ashton.

Il censimento dovrebbe avvenire nel 2013, oltre 20 anni dopo l’ultima rilevazione statistica (1991). Secondo le indiscrezioni, uno degli elementi più controversi relativi al censimento, e cioè l’inserimento del dato dell’appartenenza nazionale e religiosa, dovrebbe in base all’accordo essere facoltativo.

Ritorno al passato

Sotto il profilo politico, l’accordo non segna nulla di nuovo nella breve storia della Bosnia di Dayton. Al contrario, si tratta di un’intesa nel segno della continuità. Gli incarichi pubblici continuano infatti ad essere assegnati in base a quote etniche. In base all’accordo del 28 dicembre, questo criterio vale sia per il posto di Primo ministro che per tutti i ministri. Non è difficile pensare che anche i molti incarichi dirigenziali da assegnare all’interno dei dicasteri e delle agenzie pubbliche seguiranno lo stesso criterio, che certamente non premia il merito.

L’accordo, inoltre, sembra ribadire – ed è questo l’elemento di novità – che i posti in quota etno-nazionale devono essere riservati ai rispettivi partiti nazionali(sti). In altre parole, non basta che il Primo ministro attuale sia croato, perché così richiede la prassi informale stabilita nella Bosnia di Dayton. Deve essere un croato dell’HDZ e non, ad esempio, dell’SDP (vedi il caso della fallita candidatura di Slavko Kukić). L’esempio di Željko Komšić, il rappresentante croato alla presidenza bosniaca, che è del partito socialdemocratico, non ammette repliche. Gli incarichi ministeriali riservati a serbi e croati andranno dunque ai rispettivi partiti nazionali di maggioranza (SNSD, SDS, HDZ e HDZ 1990), mentre quelli riservati ai bosgnacchi saranno ripartiti tra socialdemocratici e SDA.

Socialdemocrazia in tilt

Da questo accordo sembra uscire ridimensionata soprattutto l’aspirazione del partito socialdemocratico a trasformare lo scenario politico e istituzionale del Paese, forte del buon risultato elettorale ottenuto nell’ottobre 2010. I leader socialdemocratici non sono riusciti a capitalizzare l’affermazione ottenuta alle urne, sono entrati in diretto conflitto con i partiti croati nella formazione del governo federale e hanno permesso infine ai serbo bosniaci, e in particolare al presidente della RS, Milorad Dodik, che ieri ha celebrato il ventennale della fondazione dell’entità a maggioranza serba, di divenire arbitro della disputa a livello statale. Ne è risultato, ancora una volta, un trionfo della visione etno-centrica, e la conseguente divisione – nei fatti – del Paese. L’unico elemento che l’accordo del 28 dicembre non prende in considerazione, infatti, è la posizione di quanti non si riconoscono in un’identità “unicamente” serba o croata o bosgnacca. Per un accordo di questo tipo è difficile comprendere perché siano stati necessari 15 mesi.

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