Tipologia: Intervista

Area: Turchia

Categoria:

Mustafa Akyol: l’AKP non è troppo islamico, è troppo turco

Dopo dieci anni al potere in Turchia, l’AKP di Erdoğan ha ancora un potenziale riformatore ma sta divenendo sempre più rigido sulle proprie posizioni. La questione – argomenta il politologo Mustafa Akyol – ha più a che fare con la tradizione del potere autoritario in Turchia piuttosto che con l’islamismo

02/01/2013, Francesco Martino - Sofia

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Mustafa Akyol è un analista politico turco. Vive e lavora ad Istanbul. Scrive regolarmente sulle pagine del quotidiano Hürriyet Daily News, e per Star. E’ spesso ospite nei principali programmi di approfondimento politico sui canali televisivi turchi. Negli anni i suoi articoli sono stati pubblicati da: The New York Times, The Washington Post, The Wall Steret Journal, The Guardian, Foreing Affairs, Newsweek. E’ autore di “Islam without Extremes: A Muslim Case for Liberty” (2011). Il nostro corrispondente lo ha incontrato in occasione della conferenza “The Middle East & North Africa (MENA) and the Balkans: Challenges and Transformation”, che si è tenuta a Sofia, Bulgaria, nel dicembre 2012.

Molti media occidentali mostrano timori nei confronti della componente religiosa dell’identità politica dell’AKP. Ma lei, durante la conferenza, ha affermato che l’AKP non è troppo religioso ma troppo turco. Cosa significa?

L’AKP ha promosso molte riforme liberali in Turchia nell’ultimo decennio. Ciononostante, negli ultimi anni, sta divenendo fonte di preoccupazione per chi in Turchia si batte per il rafforzamento delle logiche democratiche. E la vera questione non è l’islamismo. L’AKP non è un partito islamico seguendo la definizione classica e naturalmente non stanno affatto cercando di imporre la sharia. Il problema è piuttosto che il partito di Erdoğan sta divenendo sempre più autoritario nelle modalità di gestione del potere. Il primo ministro non ama essere criticato, ha un approccio di manipolazione rispetto ai media, aggressivo come stile politico non cerca il dialogo con l’opposizione. Al giorno d’oggi vi sono tutte le ragioni per criticare l’AKP da un punto di vista liberale, proprio per il loro atteggiamento sempre più intollerante e arrogante, ma non perché stiano applicando un’agenda islamista.

Dopo dieci anni al potere ritiene che l’AKP abbia ancora del potenziale in termini di riforma?

Vi è una discussione in corso in seno ai liberali turchi su questa questione. Alcuni ritengono che l’AKP sia ormai divenuto il nuovo status quo, il nuovo establishment e quindi per questo si debba criticarlo e considerarlo come avversario politico. Altri invece sono convinti che, nonostante alcuni aspetti certo problematici, l’AKP mantenga un potenziale di riforma. Lo scorso anno l’AKP ha annunciato che la lingua curda sarebbe stata introdotta nelle scuole come lingua facoltativa, un cambiamento epocale per la Turchia. Solo una settimana fa è stato concesso il diritto di costruire una chiesa a Istanbul e questo avviene per la prima volta dalla nascita della Repubblica di Turchia. Quindi sono ancora promotori di alcune importanti riforme e, d’altro canto, stanno ottenendo buoni risultati in campo economico, e per molti liberal-democratici la loro agenda politica è ancora la più accettabile. Anche perché c’è poco di alternativo dato che l’opposizione non promette molto nel campo delle riforme. Io sono ancora ottimista sul futuro della Turchia, anche se l’AKP mostra sempre più elementi per i quali è giusto venga criticato.

Nei sui editoriali spesso descrive una contesa interna all’AKP tra un’ala liberale ed una più autoritaria. In questo quadro dove mette il premier Erdoğan?

Dell’AKP fanno parte persone diverse con diverse opinioni politiche. A mio avviso nell’intero segmento islamico della società turca vi sono più persone d’approccio liberale che non persone conservatrici o intolleranti. L’AKP è però una combinazione di questi fattori. E lo stesso può essere detto per il primo ministro. Erdoğan è a volte un leader islamico liberale, altre è un difensore dei valori tradizionali. In fin dei conti è esattamente questo che rende l’AKP così di successo: il partito riesce a raccogliere i voti dagli islamici più ortodossi ma anche da chi è semplicemente felice che l’economia giri bene. Vi sono sicuramente dei liberali tra le fila dell’AKP, che spesso criticano il partito per un approccio troppo conservatore. E’ sano che questa discussione avvenga in Turchia e nel partito di governo.

Ma cosa tiene unite queste diverse anime? Il carisma di Erdoğan?

Certo, la leadership di Erdoğan gioca un ruolo importante. D’altro canto il principale partito d’opposizione, il CHP, è ancora arroccato su posizioni secolariste, difendendo posizioni ideologiche come il divieto di portare il velo e la venerazione della figura di Atatürk. Ha quindi poco per attrarre gli elettori dell’AKP, dato che non sembra una valida alternativa per guidare il paese, promuovere lo sviluppo, adottare riforme. Alcuni invece ritengono che il presidente Abduallah Gül potrebbe essere un valido rivale di Erdoğan, o dare avvio ad un nuovo movimento politico quando (e se) Erdoğan divenisse il nuovo presidente. Potrebbe verificarsi, ma questo processo potrebbe anche svilupparsi tutto in seno all’AKP e non al suo esterno.

Intravede una corrente liberale in seno al CHP?

Certo, ma è ancora troppo debole. Il partito deve prima affrontare l’eredità di Atatürk. La maggior parte dei membri del partito ancora guarda ad Atatürk come ad un semi-dio, una figura che non può essere messa in dubbio o criticata. Ma Atatürk è vissuto negli anni ’30 del secolo scorso, quando il mondo era molto diverso e non molto democratico. Si può rispettare Atatürk come figura politica ma se sostieni di essere un seguace ideologico del kemalismo non puoi dire di avere un approccio liberale.

Cosa sta accadendo al processo di riforma costituzionale?

E’ bloccato. In parte perché i partiti non riescono ad accordarsi su un testo comune e in parte perché Erdoğan ha iniziato ad insistere sul sistema presidenzialista. Quest’idea è una sua ossessione, anche perché intende diventare il prossimo presidente della Turchia. E tutto questo complica il quadro. Voteremo prima o poi per una nuova costituzione? Onestamente non lo so. Non sono molto ottimista su questo.

Da molto tempo lei segue la questione curda. Quali le cause alla base dell’attuale stallo e del processo di ri-militarizzazione?

E’ ancora la questione più delicata in Turchia. La guerra tra il PKK e lo stato turco ha ucciso più di 40.000 persone e sta ancora andando avanti. Erdoğan e il suo governo hanno fatto importanti riforme sulla questione curda ed hanno tentato un negoziato con il PKK ma ritengo che quest’ultimo si sia dimostrato fanatico e che abbia scelto nuovamente la violenza. Cosa ne uscirà purtroppo non lo sappiamo.

I negoziati sono falliti, le parti accusano l’un l’altra. Vi sono stati errori anche da parte del governo turco ma ritengo le responsabilità maggiori siano da attribuire alla leadership curda. Le loro richieste erano inaccettabili per la società turca e quando l’AKP si è resa conto di non potere avanzare troppo nella loro direzione il PKK ha iniziato nuovamente ad attaccare le guarnigioni turche, causando il contrattacco militare di Ankara.

Una cosa che non sembra cambiare in questi anni di grandi cambiamenti in Turchia è la reciproca sfiducia tra i vari segmenti della società. L’avversario politico è sempre il “nemico interno”, continuano a fiorire le teorie cospirative…

Ritengo che questa sia la debolezza principale della Turchia: non riusciamo ad avere un vero dibattito politico razionale. La società turca è ancora paranoica. Ciascuno dipinge gli avversari nel modo peggiore possibile: i secolaristi credono che gli islamisti lavorino secondo un’agenda segreta, pronti ad imporre la sharia, gli islamisti sono convinti che i secolaristi siano lì lì per avviare un colpo di stato militare; i curdi non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni statali, ed è vero anche il contrario. Abbiamo bisogno di un dialogo più onesto e più aperto.

Il processo di integrazione nell’Unione europea è sempre stato considerato una carta vincente per i liberali turchi. La questione però sembra essere divenuta marginale nel dibattito politico turco…

Il declino nell’agenda politica turca della questione di integrazione nell’UE ha certamente portato a meno convinzione nelle riforme. Questo processo aveva aiutato a liberalizzare le leggi e la vita politica. Sfortunatamente, in particolare a causa delle posizioni categoriche di alcuni paesi UE, come la Germania e la Francia, il sogno turco di entrare nell’UE sta rapidamente scemando. Allo stesso tempo, la crisi economica che sta attanagliando l’Europa rende l’ipotesi di integrazione sempre meno appetibile.

Vede qualche possibilità di rivitalizzarlo a breve?

Alcuni vedono qualche possibilità in un’Europa a due velocità. La prima guidata da Francia e Germania, la seconda dalla Gran Bretagna. Se divenisse realtà la Turchia potrebbe trovare spazio nell’Europa più periferica, nel suo “secondo strato”. In ogni caso attualmente il dibattito sull’UE non è affatto nell’agenda politica turca.

In Turchia vi è un crescente interesse rispetto al passato ottomano. Ritiene che l’eredità storica ottomana possa fornire alcune risposte in chiave liberale ai problemi che colpiscono la Turchia contemporanea?

Chiaramente non re-istituiremo l’Impero ottomano e non ritorneremo al passato. Ciononostante vi è un aspetto dell’Impero ottomano che è ancora molto significativo per la Turchia del giorno d’oggi: la nozione di pluralismo. L’Impero non era esclusivamente turco: armeni, curdi ed altre comunità, sia etniche che religiose, potevano manifestare apertamente la propria identità. La Turchia contemporanea soffre ancora di un approccio estremamente nazionalista, che impedisce il pluralismo nella società. Per andare oltre questo modello, dominato per quasi un secolo da uno stato monolitico, forse i tempi ottomani potrebbero essere d’ispirazione.

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