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Area: Balcani

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Movimondo: lezioni dai Balcani

In questa breve analisi, a cura di Cristiana De Paoli, Movimondo si interroga sulle lesson learned dalla propria presenza nei Balcani. Per ridirezionare le future attività e per stimolare un dibattito ancora troppo sopito.

10/01/2003, Redazione -

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Movimondo

Dopo quasi dieci anni di attività intensa e frenetica di emergenza e ricostruzione nei Balcani, in un periodo in cui l’impegno di Movimondo nell’area va ridefinendosi secondo "stili" ed approcci che sono più convenzionali nel mondo ONG, ci sembra opportuno fare delle riflessioni sul ruolo giocato, sugli errori fatti, sulle lezioni apprese in questo decennio.
Sono riflessioni che abbiamo fatto senza sospendere il nostro lavoro, aiutati dalla ricercatrice Cristiana De Paoli che ha raccolto, elaborato, sintetizzato le nostre esperienze dirette, ma anche le nostre "emozioni" che sono una miscela tra ideali propri, teorie lette ed ascoltate, rapporti quotidiani con la gente del posto, tensioni e problemi gestionali.
Di ricerche sul tema ne sono state fatte a centinaia e la nostra non ha l’ambizione di sostituirsi a nessuna di queste.
Il lavoro svolto vuole però rappresentare in maniera molto semplice un contributo "personalizzato" con tre principali obiettivi:
Ø "lasciare un segno" che vada al di là del migliaio di case ricostruite sotto la nostra direzione in tempi rapidissimi, dando valore a quello che i nostri cooperanti hanno sentito e pensato mentre operavano in interventi umanitari prima e tecnici poi;
Ø tracciare delle linee guida per evitare alcuni errori e trarre profitto delle lezioni apprese nei futuri interventi similari;
Ø mantenere viva una discussione sul ruolo delle ONG nelle situazioni di conflitto, fornendo un ulteriore punto di vista (molto particolare) e restando aperti a tutte le osservazioni critiche e a qualsiasi altro commento che questa ricerca potrà stimolare.
Con questa premessa apriamo la nostra riflessione – né esaustiva, né innovativa – ad un ampio confronto che fornirà un ulteriore approfondimento di questa tematica che ci sta molto a cuore.
L’aumento degli interventi umanitari, ad opera della comunità internazionale, riscontrato negli ultimi anni, è stato una risposta al corrispettivo aumento dei conflitti.
Si è trattato (ma il discorso è ancora attuale) spesso, di conflitti violenti, non più fra stati ma all’interno degli stati: guerre civili, conflitti etnopolitici, crollo d’interi apparati statali; situazioni complesse che hanno richiesto e richiedono nuove forme di comprensione, di analisi e di intervento, allargando e integrando i tradizionali approcci.
L’esperienza di questi anni ha dimostrato che l’intervento umanitario, in un contesto di guerra, ha sempre a che fare con il conflitto che gli sta intorno; non tenerne conto è ingenuo e pericoloso. Ha permesso di maturare la consapevolezza che esiste un legame profondo tra conflitto pace e sviluppo; perché ci sia sviluppo devono esistere condizioni come la pace, la stabilità e la sicurezza, tutti presupposti che l’aiuto umanitario, (inteso qui e in seguito nel senso più ampio: emergenza, riabilitazione, sviluppo) può contribuire a ricreare.
In relazione a questa nuova visione le agenzie umanitarie sono state incoraggiate a riadattare i loro programmi d’intervento mantenendo da un lato, i loro tradizionali obiettivi di alleviare le sofferenze umane e supportare la ricerca di un sistema economico e sociale sostenibile; dall’altro promuovendo e contribuendo alla costruzione di una pace duratura.
Oggi infatti, è molto più evidente il ruolo e l’importanza dell’azione svolta dal basso, accanto all’alta diplomazia, per la risoluzione di conflitti che coinvolgono una larga e intricata ragnatela di parti e fattori e rendono necessario un approccio sistemico a diversi livelli di intervento: leadership politico militare, quadri intermedi e popolazione.
In quest’ottica le agenzie umanitarie giocano un ruolo importante dal momento che il loro tradizionale campo d’intervento consente di creare una rete di inter-relazioni, che possono diventare fondamentali per far dialogare le parti in lotta, anche al livello della società civile e non solo istituzionale o militare, con l’obiettivo di porre le fondamenta per la ricostruzione di un equilibrio venuto meno con il conflitto.
Deve essere chiaro che gli aiuti non iniziano un conflitto né possono porvi fine, riconciliazione e ricostruzione della pace sono compiti che solo le popolazioni e le strutture sociali locali possono intraprendere. Il ruolo degli agenti esterni, come sono le Ong, può solo limitarsi a facilitare i processi di dialogo individuando e valorizzando in particolare quelle realtà che non aderiscono alla logica della violenza – la brutalità e la violenza sono infatti, solo una parte di tutte le interazioni sociali, anche in situazioni di conflitto violento – dando loro l’opportunità di affrancarsi dagli attori responsabili del conflitto armato e coltivare, dove possibile, rapporti e attività non conflittuali.
Tuttavia, e l’esperienza degli anni passati lo dimostra, gli aiuti umanitari possono creare degli incentivi non solo per la pace ma anche per il conflitto, se alla base non sono supportati da tutta una serie di condizioni che ne regolano l’intervento. Possono, ad esempio, alimentare la guerra garantendo il trasferimento di risorse: i beni possono essere rubati dalle fazioni in lotta o da bande armate e a lungo andare le persone che ricavano un guadagno dal conflitto e dal sistema degli aiuti possono ostacolare la ricerca di soluzioni pacifiche. I progetti possono aumentare tensioni pre-esistenti come può avvenire nel caso in cui la distribuzione degli aiuti non sia equamente distribuita tra tutte le parti in campo. Altri aspetti da considerare sono i messaggi etici impliciti che vengono trasmessi da determinate scelte e comportamenti degli operatori umanitari. La scelta di far proteggere il personale, gli aiuti da distribuire o l’intervento stesso, ad esempio, segnala legittimità alle armi come strumento di autodifesa; o ancora, le differenze di trattamento tra personale internazionale e impiegati locali dicono implicitamente che le persone non hanno tutte lo stesso valore.
Tali meccanismi possono far diventare controproducenti o far fallire gli aiuti esterni; questa prospettiva rende necessario progettare ogni intervento umanitario tenendo conto del contesto complessivo in cui ci si inserisce. Occorre identificare le cause strutturali ed immediate del conflitto, le sue dinamiche interne ed esterne, tenendo presente che non esistono formule precostituite, dal momento che ogni conflitto rappresenta una realtà a sé; e sulla base di queste osservazioni, capire come l’azione umanitaria può inserirsi, valutando in anticipo gli eventuali effetti collaterali di determinate decisioni, evitando in questo modo di alimentare tensioni o divisioni.

Le Ong in questo non possono essere lasciate sole, un ruolo fondamentale deve essere svolto soprattutto dai donatori, i quali riconoscono tutti, o almeno i più importanti – Unione Europea, Banca Mondiale, Nazioni Unite – il potenziale di pace insito nell’aiuto umanitario. Si spingono oltre riconoscendo la necessità di strumenti di prevenzione e di risposta rapida, di coordinazione tra i diversi attori dell’aiuto; l’importanza della coerenza tra i differenti strumenti della politica e di individuare e supportare le capacità locali di uscire dalla crisi evitando di imporre progetti o soluzioni dall’alto. Si tratta fondamentalmente di lezioni imparate dalle crisi degli ultimi anni che tuttavia stentano a tradursi in programmi dotati di coerenza e consistenza. Esiste un profondo gap tra le intenzioni e gli strumenti che vengono forniti per realizzarle. Spesso gli interventi si focalizzano sugli aspetti di prima emergenza o sugli aspetti infrastrutturali e materiali, mettendo in secondo piano la priorità della ricostruzione sociale civile e democratica delle aree interessate. In sostanza nonostante a parole si sostenga l’importanza di investire sullo sviluppo umano e sociale, nella pratica ben pochi soldi vengono spesi per questo proposito (vedi i fondi previsti dal Patto di Stabilità dove il 90% degli investimenti previsti è destinato a infrastrutture).
Da un lato c’è la tendenza a mantenersi su posizioni tradizionali che costringono le agenzie umanitarie a muoversi intorno, e non dentro, al conflitto per mantenersi ligie ai loro mandati. Questo si traduce in procedure troppo rigide: evitare rischi, rispettare i tempi, minimizzare i costi, pensare e agire in una prospettiva di breve termine, focalizzarsi sui singoli progetti e a livello locale, stabilendo implicitamente che analisi e ricerca sulle cause del conflitto e su come interagirvi in modo costruttivo siano un lusso non necessario. Non consentendo alle agenzie umanitarie di investire tempo e denaro sulla conoscenza del contesto e sulla formazione del personale che a questo punto si trova nella condizione di dover avere competenze tecniche ma anche sociali e che alla fine si deve affidare al buon senso cercando di minimizzare i danni; danni che possono, come spesso accade, minare la buona riuscita del progetto stesso.
Dall’altro esiste una certa disponibilità a sviluppare modalità di intervento più flessibili, a lasciare maggior spazio alle iniziative delle agenzie umanitarie cercando nuove strade, valutando le condizioni di volta in volta per verificare se le opportunità che si possono presentare, meritano l’assunzione di qualche rischio; consentendo alle stesse di uscire in questo modo dal ruolo, di mere esecutrici con poca indipendenza, che troppo spesso sono costrette ad assumere. Non delegando, ma lavorando insieme mantenendo un ruolo attivo e di supporto. E tuttavia seppur auspicabile, questo atteggiamento stenta ad affermarsi. Esiste un grosso ostacolo da affrontare e superare ed è rappresentato dal rapporto tra donor, interessi nazionali e di politica estera. Troppo spesso l’aiuto umanitario viene usato dai paesi donatori per fini politici o come unico strumento per promuovere la risoluzione di un conflitto, coprendo mancanze a livello decisionale. Troppe incongruenze e difficoltà nell’elaborare strategie efficaci e a lungo termine nascono da questo legame. Qualche esempio: la politica di un donor può cambiare improvvisamente perché sono cambiati gli equilibri politici alla base dell’intervento. Spesso non può esistere coordinazione tra interventi che fanno riferimento a donatori differenti e quindi a interessi differenti; questo comporta l’impossibilità ad avere strategie comuni e collaborative; collaborazione che tuttavia alle singole agenzie è richiesta. Spesso tensioni o inconsistenze sono dovute a contemporanee e contrastanti azioni a vario livello; un esempio per tutti, i bombardamenti e gli aiuti umanitari in Kosovo. Queste incongruenze impediscono di avere strategie efficaci che richiedono coerenza e comunità d’intenti da parte di tutte le forze che possono influenzare i processi di pace, dall’alta diplomazia politico militare ai programmi affidati alle agenzie umanitarie. Impediscono ai donatori stessi di sviluppare analisi e comprensione della realtà obiettive; analisi che deve essere fatta su due livelli. Uno macro che tenga conto delle aspettative regionali e nazionali e uno micro focalizzato alla società civile e risposta della comunità; che consenta loro di avere bene in chiaro quali impegni e quali compiti vogliono assumersi, come trasmetterli alle agenzie e come e su cosa vogliono lavorare con loro.Queste a loro volta hanno l’opportunità di aumentare la sensibilità dei donatori al conflitto e di accelerare alcuni processi decisionali; ma per poter fare questo è necessario superare divergenze e divisioni in nome di una strategia e progetto comune.

Di seguito verranno trattati alcuni casi di studio relativi all’esperienza di Movimondo nei Balcani, in particolare in Macedonia e in Kossovo; individuando alcune linee guida e/o lezioni apprese utili per interventi futuri.
Movimondo nella regione di Tetovo (FYROM)
Movimondo in Kossovo

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