Moria: dopo il dramma, la paura della reclusione
Sull’isola di Lesbo migliaia di rifugiati sono finiti in strada dopo l’incendio nel campo di Moria. Da pochi giorni esiste un nuovo accampamento di tende a Mitylene, ma la maggioranza delle persone non vuole entrarvi per paura di non poter più uscire. Il reportage di Valerio Nicolosi
(Originariamente pubblicato da Linkiesta , il 18 settembre 2020)
La strada che collega il vecchio campo di Moria dall’accampamento spontaneo degli sfollati è un via vai di persone che trascinano dietro di loro ogni cosa abbiano potuto trovare e che potrebbe essere utile. Chilometri e chilometri con una cassa di plastica attaccata ad una corda legata alla vita, il sudore che bagna completamente le maglie sotto il sole di Lesbo con i suoi 30°C.
«Abbiamo perso tutto e quindi ogni cosa ci può essere utile. Quella notte siamo stati svegliati dalle urla delle persone e siamo scappati solo con i vestiti, è un miracolo che siamo vivi» racconta un ragazzo che si aggira nella zona Ovest del vecchio campo di Moria, quella che in parte si è salvata. Prende un grande peluche a forma di orso e lo mette in un cassonetto. «Siamo stati fortunati, il cassonetto ha le ruote e contiene più cose di una cassetta di plastica» aggiunge mentre con un suo amico iniziano a spingerlo verso il nuovo insediamento fatto di canne di bambù e coperte. Oltre all’orso e a qualche altro oggetto che si è salvato, il campo di Moria è completamente distrutto: delle 12.000 persone che vivevano ammassate qui dentro è rimasta solo la cenere delle tende e dei container, oltre che una folta popolazione di gatti e cani che si aggirano affamati e disorientati per quello che è successo.
«La notte dell’incendio io ero lungo il perimetro del campo per fare primissimo intervento, mentre i miei colleghi erano all’interno della nostra clinica, pronti a intervenire in caso di necessità», racconta Giovanna Scaccabarozzi, dottoressa di Medici senza frontiere con alle spalle molta esperienza tra le navi delle Ong e la crisi d’Ebola in Africa. «È stato quasi irreale vedere quelle fiamme altissime mangiare il campo a poco a poco, ma per fortuna quasi tutte le persone sono riuscite a scappare», aggiunge mentre si prepara per andare nella “zona rossa”, ovvero dove sorge il grande accampamento spontaneo. «Abbiamo molti pazienti che hanno necessità giornaliere, donne in gravidanza che non sappiamo dove siano, così come quelle psichiatriche della nostra clinica di Mytilene. Ogni giorno andiamo nel campo per dare assistenza a chi ne ha bisogno e a cercare i vecchi pazienti», chiosa la dottoressa.
Le persone sfollate fino a questa mattina erano circa 11.000 visto che solamente mille avevano accettato spontaneamente di andare nel nuovo campo che l’esercito greco ha costruito in tempi record. «Dentro un’altra prigione non ci vogliamo andare, siamo stati a Moria per un anno e ora vogliamo andare sulla terraferma” diceva ieri Shamsia, una donna afghana che ha improvvisato un piccolo fuoco vicino alla sua tenda, così può friggere il pane per la famiglia. «Ci hanno detto che se non accettiamo di andare nel nuovo campo non saremo trasferiti sulla terraferma ma sappiamo anche che se decidiamo di entrare non possiamo più uscire», aggiungeva la figlia di 19 anni che sogna di studiare in Italia. Chi entra nel campo governativo non può uscire, ufficialmente per restrizioni dovute al Covid anche se al momento sono circa 30 i positivi e sono tutti isolati.
Nonostante gli iniziali proclami del governo greco, quindi, il nuovo campo è stato accolto con grande freddezza dai rifugiati e alla fine lo hanno accettato solo per sfinimento: «Se non entriamo non ci registrano e non ci danno i documenti per andarcene da qui», dicono tutti mentre si dirigono verso il campo. In realtà il governo ha usato la linea dura anche sul cibo e sull’acqua. Nell’accampamento lungo la litoranea la distribuzione la facevano solo le organizzazioni di attivisti e volontari e il cibo non bastava per tutti. La fila raggiungeva più di un chilometro di lunghezza e il cibo non bastava mai per tutti. «Ho tre figli piccoli, vogliono che muoiano di fame», urlava Aisha, una donna siriana che non era riuscita a prendere il suo pacco e doveva aspettare altre 24 ore prima di riprovare.
Nonostante questo primo risultato positivo per il governo greco la partita è ancora tutta da giocare, i rifugiati non si fidano delle promesse del Ministro della Protezione Civile, Michalis Chrysochoidis, secondo il quale «entro Natale verranno spostati i primi 6.000 sulla terraferma e gli altri 6.000 entro Pasqua».
Non è bastata nemmeno la visita di Charles Michel, il Presidente del Consiglio Europeo che in una conferenza stampa improvvisata nel nuovo campo ha detto che stanno lavorando perché “le cose migliorino”, nonostante questo nuovo insediamento sia fatto di tende di sola plastica, calde d’estate e fredde d’inverno, e installate su una spianata di terra, pronta a diventare di fango con le prime piogge. Michel ha parlato anche di collaborazione tra gli Stati europei ma al momento solamente la Germania ha proposto di accogliere 1.500 persone da Moria mentre un gruppo di 10 Stati si è fatto avanti per accogliere i 500 minori non accompagnati.
«Siamo in viaggio da 3 anni, io posso anche tornare in Afghanistan perché ormai la mia vita è segnata, però voglio che i miei figli abbiamo una possibilità di studiare ed essere liberi», chiosa Shamsia. Un appello che sembra un tentativo disperato di uscire da questo stallo.
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