Microcredito: prosegue il dibattito
Pubblichiamo un articolo di risposta-riflessione al precedente "Le mille incognite del Microcredito" presentato nei giorni scorsi. L’articolo è a cura di Giampietro Pizzo di Microfinanza srl.
Continuiamo il dibattito in merito al microcredito pubblicando quest’articolo a cura di Gianpietro Pizzo di Microfinanza srl. Ricordiamo che da alcune settimane è attivo on-line un forum di discussione proprio su queste tematiche.
Quel microcredito così "commerciale"…
Costretto da non so quale necessità una volta, a chiedere danari in prestanza a uno, il quale scusandosi di non potergliene dare, concluse affermando, che se fosse stato ricco, non avrebbe avuto maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso replicò: mi rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa nostra. Prego Dio che non ti faccia mai ricco.
Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Operette Morali, Giacomo Leopardi
In Italia di microcredito si comincia a parlare parecchio. Ma non sempre con favore, anzi spesso con sospetto. Troppa "imprenditorialità", troppo "mercato", troppe aspirazioni "commerciali", tassi di interesse "troppo alti". Insomma troppo fuori dagli schemi della cooperazione allo sviluppo tradizionale. La più recente espressione di queste critiche è dovuta ad Alberto Sciortino, coordinatore dei programmi del Ciss, Cooperazione Internazionale Sud Sud, ong di Palermo. La si può leggere ne Le mille incognite del microcredito su www.terrelibere.it
e nell’intervento "Ma a chi serve il microcredito?" in Microcredito: uno strumento per lo sviluppo? a cura dell’Aps Associazione per la Partecipazione allo Sviluppo di Torino (in questo testo sono riportati anche due interventi di Microfinanza: "I nuovi scenari del debito estero e l’alternativa microcredito" di Francesco Terreri e "La valutazione d’impatto dei progetti di microcredito: obiettivi e metodologie di valutazione" di Fabio Malanchini).
La moda
«Il microcredito è di moda» si dice ormai da più parti. Più di 7.000 istituzioni di microfinanza esistono ed operano nel mondo. L’ultimo rapporto della campagna internazionale del microcredito (Microcredit Summit) ne censisce 1.567 con 30 milioni 681 mila destinatari di microprestiti, di cui 19 milioni 327 mila "molto poveri" – definiti in prima approssimazione come coloro che vivono con meno della metà del reddito della soglia nazionale di povertà. Di essi oltre 14 milioni sono donne.
Ma più che di moda io parlerei di successo, e di successo clamoroso dopo anni di afro-pessimismo, di catastrofismo umanitario, di reciproci j’accuse fra policy makers e ong di ogni colore e sponda. Ben vengano queste mode se ci aiutano a costruire il nuovo e ad immaginare un futuro per miliardi di "dannati della terra".
Nel suo intervento Sciortino nota anche che la microfinanza non ha inventato nulla. Ci sono state le esperienze europee delle casse rurali e delle banche popolari; i teutonici Raffeisen e Schulze-Delitzsch prima del bengali Yunus; il signor Tonti prima delle tontines e prima dei francesi con il loro "crédit mutuel".
Ebbene sì, come ci insegna Albert O. Hirschman lo sviluppo è un fiume sotterraneo: da esperienze di fallimento nascono nuove opportunità e da istituzioni ormai morte sorgono nuove Fenici dello sviluppo. Quello che conta è l’autenticità dei processi organizzativi e delle forme istituzionali: e così la nostra storia creditizia è la base del nostro sviluppo odierno.
Analogamente, se vogliamo essere realisti, la storia economica africana doveva necessariamente passare per il fallimento delle istituzioni coloniali – francesi, inglesi ecc.- proprio perché queste erano state estrapolate da contesti, storie e culture totalmente altri. Ma i "fiumi sotterranei" possono sempre riemergere, e così un banchiere napoletano può riaffiorare in Camerun, in pieno paese Bamileke, per dare vita ad una esperienza originalissima come le tontines.
Le banche e lo sviluppo
Ma veniamo agli argomenti centrali della critica. Il primo è il ruolo del credito e della microfinanza nei processi di sviluppo.
Si afferma, e Sciortino riprende questa tesi, che le iniziative di credito di carattere mutualistico e cooperativo, come quelle storicamente sperimentate in diverse realtà europee tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, hanno avuto successo perché inserite «in un contesto di sviluppo generale, a livello continentale, e di trasformazione industriale dell’economia». In definitiva, solo se esiste quella volontà di investire, simbolicamente rappresentata dagli animal spirits degli imprenditori, l’istituzione creditizia e bancaria potrà svolgere degnamente il proprio ruolo di volano dell’economia.
Ma non è proprio questo volano che manca in molti paesi poveri in Africa, Asia o America Latina? Non è quel diritto negato al credito e l’assenza di un briciolo di democrazia economica che tarpano le ali ai mille progetti individuali e collettivi degli esclusi, delle donne e degli uomini nelle periferie urbane così come nelle campagne? Sono centinaia di milioni gli "spiritelli imprenditoriali" che chiedono di poter agire, contare, partecipare alla costruzione, non solo di economie regionali e nazionali ma anche, e soprattutto, di una diversa e più equa società civile.
Scomodiamo ancora una volta Hirschman per dire che non esistono modelli di sviluppo equilibrato in cui tutti i fattori produttivi, istituzionali, culturali sono sincronicamente riuniti. Lo sviluppo è un processo in cui le tensioni e le contraddizioni, le priorità e le compatibilità costruiscono un modello sociale ed economico in continua evoluzione e in cui minime variazioni possono produrre enormi cambiamenti.
Nella stessa storia europea non tutte le banche sono state uguali: quelle che hanno funzionato come banche dei distretti industriali di piccole imprese si sono comportate nei confronti degli imprenditori e del "contesto" (la "costruzione sociale del mercato") diversamente dalle istituzioni che hanno affiancato la grande impresa pubblica o privata. E la differenza non è passata necessariamente tra banche cooperative e banche "commerciali".
Profitti
Il secondo argomento critico di Sciortino e di altri suona così: «Le iniziative di microcredito, nate come finanza a sostegno dell’economia debole e informale, hanno finito per operare per la ricerca del profitto e sono diventate componenti a tutti gli effetti dell’economia creditizia formale».
Ecco il vizio antico che riaffiora inesorabile! Se un’esperienza organizzativa funziona, e magari è redditizia, subito il demone del profitto la corrompe, portandola dritta dritta verso una perversa integrazione nell’economia formale.
Ma finché l’economia internazionale opererà in un contesto di mercato, un’impresa o una cooperativa debbono poter stare sul mercato, ricercando il profitto per soddisfare i bisogni dei propri aderenti, dei propri soci, dei propri beneficiari. La questione rimane quella della forma di appropriazione di questi profitti: i grandi gruppi multinazionali e bancari o i piccoli soci aderenti alle migliaia di cooperative di risparmio e credito africane, asiatiche o latinoamericane?
Si tratterà semmai di creare procedure trasparenti e democratiche di investimento e di rifinanziamento delle istituzioni di microfinanza. Le esperienze di molte banche etiche del Nord Europa vanno proprio in questa direzione (Triodos, Oikocredit ecc.).
Ma non si tratta solo di questo. Di mercato non ce n’è un solo tipo, e il fatto che oggi ci sia la "dittatura" dei mercati oligopolistici o monopolistici – e che il "modello" siano Enron o WorldCom – non impedisce di pensare a sistemi di scambio più equi, che hanno al centro la possibilità di soddisfare i bisogni essenziali (cibo, acqua, salute, istruzione). Esperienze come la microfinanza e il commercio equo e solidale – pur con tutti i loro limiti – mostrano proprio che "un altro mercato è possibile".
I poverissimi
Ma Sciortino va oltre e si chiede: a chi giova il microcredito? Ai poveri o a qualcun altro, o forse semplicemente a nessuno?
Intanto ci sono i 30 milioni di destinatari, soci, beneficiari, clienti, che non sono pochi. La questione però è che si parla dei "più poveri fra i poveri" e anche i documenti di riflessione del prossimo Microcredit Summit (New York, novembre) – che affrontano, come molti operatori della microfinanza, i problemi dell’impatto del microcredito – si interrogano preoccupati sul numero ancora troppo basso di poverissimi raggiunti.
Tuttavia bisogna intendersi: chi è veramente disperato, chi non ha veramente nulla, neppure un patrimonio di relazioni sociali che gli permetta di avere una garanzia solidale, perché vive alla giornata, è rifugiato o è immigrato da poco in una megalopoli, non può beneficiare veramente di un credito perché non ha né un progetto né una visione del proprio futuro. Con i disperati, con i naufraghi, con i più poveri dei poveri, altri sono gli strumenti per lottare contro la miseria e per una politica di emergenza. La donazione è spesso in questi casi lo strumento da usare, senza fare confusione e chiamando dono il dono e credito il credito.
Autosostenibilità
Il termine che più preoccupa i critici del microcredito come Sciortino è autosostenibilità. Io preferisco semplicemente parlare di "autonomia" – sia questa organizzativa, economica o finanziaria. Ma il punto è: che male c’è a voler costruire processi di sviluppo autonomi (un tempo si sarebbe detto "autocentrati")?
Se un’istituzione di microfinanza ce la fa da sola, con le proprie gambe, e magari riesce pure a rifinanziarsi privatamente, senza far ricorso ad una Ong o a un Ministero della Cooperazione, perché non dovrebbe essere una buona cosa? Non è questa la storia del movimento cooperativo o, ancora più vicino a noi, del movimento del commercio equo e solidale o di Banca Etica? Perché quello che va bene per noi non dovrebbe andare bene per le popolazioni del Sud del mondo?
Ma quello che più conta è l’autonomia organizzativa, cioè la capacità di ogni organizzazione di dotarsi di una propria strategia, di una propria politica e, soprattutto, di una propria ragione d’essere. Su questo e per questo, tutti dobbiamo impegnarci.
Per giunta, mentre preoccupa l’autosostenibilità economica delle organizzazioni di microfinanza, essa viene auspicata per i destinatari – microimprese o produttori associati. Per quale strana ragione il piccolo artigiano o la cooperativa di contadini dovrebbero diventare autarchici sul piano finanziario dopo alcuni cicli di credito? Perché il microcredito – «utile» a detta di Sciortino «per avviare le attività economiche» – non lo sarebbe più in seguito, e l’artigiano o la cooperativa dovrebbero accontentarsi dei fondi propri?
È proprio l’ineguale distribuzione su scala mondiale dei fondi disponibili per l’investimento – oggi il 95% di essi va al 20% più ricco della popolazione mondiale – uno dei macigni sulla strada dello sviluppo dei paesi più poveri. Forse che le multinazionali impiegano solo fondi propri, o non sono davvero i grandi gruppi economici e finanziari quelli con il più alto "leverage", quelli che rastrellano la gran parte del credito mondiale?
La venditrice di Dakar
Infine la questione che più tormenta, incomoda, fa dubitare chi si occupa di sviluppo e di finanza etica. Perché questi tassi di interesse così alti, perché questa microfinanza così prossima all’usura?
Lo stesso Sciortino lo spiega bene: i costi di intermediazione sono elevati e «nemmeno le banche vivono del differenziale tra i tassi sui prestiti e quelli sui depositi». È proprio questa la ragione per cui lo spread finanziario è così alto nelle istituzioni di microfinanza. Lo dicono i milioni di poveri e di esclusi dei paesi del Sud: meglio un credito caro che nessun credito. E siccome costa caro dare piccoli, piccolissimi crediti nei più remoti angoli del pianeta, meglio un tasso d’interesse elevato che nessun credito.
Ma facciamo un caso concreto, il caso della piccola venditrice di pomodori di Dakar. Compra una cassetta di pomodori la mattina, al mercato all’ingrosso di Pikine, per 1.000 franchi CFA (la moneta dell’Africa occidentale francofona: vale circa 3 lire, ce ne vogliono 655 per fare 1 euro) e rivende al dettaglio gli stessi pomodori ad un angolo di strada sul Plateau, ricavando a fine giornata 3.000 FCFA. Il suo margine lordo è di 2.000 FCFA, ovvero il 200% del capitale investito.
Poniamo che il prestito serva a coprire l’acquisto di pomodori per un mese. Considerando 26 giornate lavorate, avremo entrate per 78.000 FCFA e uscite per 40.000 FCFA (26.000 per l’acquisto delle casse di pomodoro, più 13.000 di trasporto, più spese diverse per 1.000 FCFA). Un prestito di 26.000 FCFA ad un tasso di interesse del 5% mensile (un’enormità, diremmo noi) prevede il pagamento di 1.300 FCFA di interesse.
Meglio pagare questo tasso – dice la saggia donna wolof -piuttosto che rinunciare a questo piccolo commercio informale. Anche perché, a ben guardare, quei 1.300 FCFA di interesse hanno consentito di produrre un reddito mensile di 38.000 FCFA. A fronte di un esorbitante tasso su base annuale pari al 60%, si avrà un’incidenza irrisoria in termini di oneri finanziari, cioè il 3,4% del margine lordo.
Semmai uno dei problemi aperti è che non tutti i settori e le attività economiche richiedono le stesse condizioni di prestito. Altra cosa è, ad esempio, il credito alla produzione rurale, oggi più difficile proprio perché i contadini sono molto meno liquidi dei venditori ambulanti. Ma anche su questo terreno la microfinanza si sta misurando.
Il "credito" della microfinanza
La vera incognita per ora resta la Cooperazione allo Sviluppo, in generale ma soprattutto, nello specifico, in terra italiana. Nessuno sa esattamente in che direzione si muoverà né con che mezzi. A parte gli ennesimi scherzi sullo 0,7% o sull’1% del Pil.
Viceversa, il "credito" della microfinanza è stato costruito lentamente, in mezzo alle storie individuali e collettive di milioni di persone. È un processo che nasce dal basso e che solo da poco è agli onori della cronaca. È un tesoro di esperienze, di conoscenze, di dispositivi organizzativi che va preservato, indipendentemente dal fatto che sia di moda oppure no.
Se la Banca Mondiale ha deciso di adottarlo come strumento di lotta alla povertà, non deve essere istintivamente giudicato come pericoloso, negativo. È, noi crediamo, innanzitutto una vittoria di coloro che credono che il "sapere dello sviluppo" sia dei contadini, degli artigiani, dei piccoli commercianti, che lottano non solo per sopravvivere ma per migliorare davvero la loro condizione e la loro speranza di vita.
È questo tesoro di conoscenze e di esperienze che non va assolutamente tradito: tutto il resto potrà e dovrà essere emendato, criticato, aggiustato, migliorato. Ma nessuno dovrà tradire questa lezione.
Certo che «non è sufficiente mettere denaro nelle mani delle persone, perché si possa innescare lo sviluppo» ma è comunque, ne siamo persuasi, un piccolo e significativo passo sulla difficile via che conduce alla conquista della dignità e della libertà per ogni abitante della terra.
Giampietro Pizzo – Microfinanza srl
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