Mezzo pieno o mezzo vuoto’
Invito per Croazia ed Albania, stop alla Macedonia a causa della questione del nome con la Grecia. Segnato dal diverso approccio di Washington e Bruxelles, il bilancio del summit Nato di Bucarest che ridisegna l’assetto geopolitico dei Balcani, è segnato da sia da luci che da ombre
Croati ed albanesi sono tornati a casa contenti: a Bucarest sono stati formalmente invitati a diventare il ventisettesimo e ventottesimo membro della Nato. Salvo incidenti, già il prossimo anno, in occasione del suo sessantesimo compleanno, l’Alleanza atlantica, nata per proteggere l’occidente da un’invasione sovietica, accoglierà i due ex-paesi socialisti e si estenderà così su entrambe le sponde del Mare Adriatico.
I macedoni, al contrario, se ne sono andati sbattendo la porta e gridando all’ingiustizia: il loro impegno e il duro lavoro fatto per soddisfare i criteri di adesione è stato riconosciuto, ma l’opposizione della Grecia (vista la mancata soluzione della disputa sul nome) li ha lasciati fuori dalla porta. Gli alleati hanno tentato di ammorbidire lo schiaffo: "Un invito sarà esteso non appena verrà raggiunta una soluzione mutualmente accettabile della questione del nome", recita la dichiarazione finale del summit.
Ma Skopje ha letto quelle parole come una beffa: "Dipendesse solo dai nostri meriti, oggi saremmo nella NATO", ha detto ad Osservatorio il portavoce del primo ministro, Ivica Bocevski. "Non siamo entrati nell’Alleanza per un problema che proviene dal medioevo balcanico". Sposando la delusione del governo, i giornalisti macedoni hanno rumorosamente abbandonato la conferenza stampa mentre il segretario generale dell’Alleanza Jaap De Hop Scheffer annunciava la decisione.
Meno di ventiquattrore prima, quando il vertice doveva ancora cominciare, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush aveva manifestato nel modo più esplicito possibile il suo sostegno alla candidatura della repubblica ex jugoslava. "La Nato prenderà una decisione storica sull’adesione di tre paesi balcanici: Croazia, Albania e Macedonia" aveva dichiarato, come se i giochi fossero già fatti.
E’ possibile che i leader della Macedonia abbiano peccato di eccessivo ottimismo. Confortata anche dall’incoraggiamento di Washington, Skopje sembra avere trascurato il fatto che la Nato è un club di cui Atene fa parte a pieno titolo. Per quanto perplessi sul merito della disputa, gli europei non sarebbero mai passati sopra ad un membro del loro club. Il montare della retorica bellicosa, nei giorni precedenti il vertice, non ha aiutato. Alcuni giornalisti macedoni sono arrivati a chiedere a Scheffer quali sanzioni avrebbe ricevuto la Grecia ponendo il veto alla candidatura macedone.
Certo, l’Europa avrebbe apprezzato una soluzione dell’ormai quasi ventennale questione del nome, anche perché non riguarda solo la Nato. In autunno ci si attende che Skopje riceva finalmente una data per l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione Europea, dopo essere stata dichiarata tre anni fa paese candidato. Ma anche questo è un passo che Atene può bloccare.
La Macedonia, altrimenti detto, rischia di perdere altro tempo e di vedere crescere le proprie frustrazioni, con pericolose conseguenze sul piano interno: la nutrita comunità albanese potrebbe cominciare a sentirsi ostaggio di una disputa che non le appartiene, proprio mentre il Kosovo guadagna la tanto agognata indipendenza e l’Albania marcia spedita verso l’integrazione euroatlantica.
Le alternative sono poche. Alla vigilia del summit, la Macedonia aveva minacciato di ritirarsi dai negoziati in caso di veto, ma ora è invitata a fare l’esatto contrario: le conclusioni del vertice di Bucarest incoraggiano "la ripresa senza indugi dei negoziati e ci aspettiamo che vengano conclusi il più presto possibile". C’è da sperare che il ministro degli Esteri greco, la signora Dora Bakoiannis, non facesse del sarcasmo quando ha dichiarato di sperare che anche la "FYROM" possa presto aderire all’alleanza.
Domani il Montenegro, la Bosnia, la Serbia?
Comunque la si pensi, le decisioni o le non decisioni prese a Bucarest sono destinate a ripercuotersi sui Balcani. Appresa la notizia, Stipe Mesic, presidente della Croazia, ha commentato: "Oltre all’impulso che darà al progresso delle riforme in Croazia, la decisione di invitarci rappresenterà un incoraggiamento per altri paesi della regione".
Sulla lista d’attesa – a parte il caso macedone – restano la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro e la Serbia, l’unico paese a cui la Nato abbia fatto la guerra, ma che dal novembre 2006 (vertice di Riga) è entrata nel Partenariato per la pace, il cerchio più ampio di "amici" dell’Alleanza.
La Nato ha deciso di rafforzare il livello di cooperazione con questi paesi, inviandoli a passare dal Partenariato al "dialogo intensificato", il cerchio in cui già si trovano Ucraina e Georgia, che a loro volta avrebbero voluto fare un passo avanti verso l’adesione ma per ora rimangono al palo.
L’invito a salire di rango era stato espressamente auspicato da Podgorica e Sarajevo, ma non da Belgrado. Il presidente rumeno Traian Basescu ha chiarito le cose: per la Serbia l’offerta sarà valida non appena la domanda verrà fatta.
Presente al vertice, il ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremic ha detto che il suo paese continuerà a collaborare con l’Alleanza, ma quando si tratterà di passare ad una forma di integrazione più profonda, "la decisione dovrà essere presa democraticamente dalle istituzioni serbe".
Insomma, la Macedonia ha chiesto qualcosa senza ottenerlo. Al contrario la Serbia, dove si vota tra un mese, ha ottenuto qualcosa che non ha mai chiesto e che per ora non sembra intenzionata a chiedere. Una situazione non troppo diversa da quella con l’Unione europea, dove il desiderio di Bruxelles di stringere rapporti con la Serbia appare più forte di quello della Serbia stessa, o perlomeno di alcuni dei suoi governanti.
Nel frattempo diciassettemila soldati della NATO continuano a presidiare il Kosovo, che Belgrado considera una propria provincia.
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