Tipologia: Recensione

Area: Europa

Categoria:

Martin Pollack, la verità del paesaggio

Un percorso attraverso tre romanzi dello scrittore austriaco Martin Pollack e la sua urgenza dello scavare nelle terre dell’oblio

03/07/2017, Gabriele Santoro -

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(Quest’articolo è stato originariamente pubblicato da minimaetmoralia.it)

«Lavorare a Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre ha significato anche distruggere la mia infanzia. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, tanto amato dai miei nonni che mi hanno allevato. La mia ricerca mi ha messo spietatamente davanti agli occhi il fatto che essi non erano solo affettuosi nonni, ma anche protervi nazisti, pieni di odio e disprezzo per gli altri, slavi ed ebrei. La distruzione della propria infanzia è un’impresa pericolosa e non so se riuscirò mai a superarla», ha raccontato una volta Martin Pollack a Claudio Magris.

Nelle pagine dei libri dello scrittore e giornalista austriaco, traduttore dal polacco di vari reportage di Kapuściński, l’amore per la vita si tocca ovunque ed è inscindibile dalla ricerca di verità così complesse. La letteratura di Pollack non è etichettabile entro confini di genere: è davvero tante cose insieme, romanzo documentario, libro di viaggio, reportage, saggio, omaggio poetico e filosofico. I suoi testi assomigliano al diritto all’identità, che avversa l’inganno e la mimetizzazione nelle pieghe della Grande Storia.

In Paesaggi contaminati (Keller , traduzione a cura di Melissa Maggioni, 138 pagine, 14 euro) l’autore sostanzia con il verbo imboschire l’opera dei carnefici che nel Novecento hanno disseminato l’Europa di fosse, dove è stato disperso e occultato anche il residuo ultimo di umanità. «Modellare il paesaggio era la motivazione, la giustificazione per il genocidio. L’uso del termine apparentemente neutrale, addirittura innocente, “paesaggio”, da parte dei nazisti, è una ragione importante per utilizzarlo con cautela e per indagarlo criticamente».

Pollack trasmette l’urgenza di scavare nelle terre dell’oblio, perché non sono sufficienti i memoriali, di cui abbonda il Vecchio continente, spesso ammantati dalla retorica dell’eroismo che garantisce sempre un futuro alla guerra. All’inizio di Paesaggi contaminati lui ci consegna la necessità del coraggio condensata in Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre, apparso dieci anni fa in Italia e che sarà ripubblicato nel 2018 da Keller. Nel dicembre del 1944 le bombe americane distrussero la sua casa di Linz, e il bambino di allora raccoglie frammenti sparsi. Con maestria Pollack illustra come l’accezione di paesaggio sia in modo inestricabile un groviglio di sensazioni, immaginazione e memoria. I suoi paesaggi interiori producono paradossalmente in lui oggi un contrasto con l’oggettività grigia dei primi anni del dopoguerra pieno di privazioni e dolori.

Pollack non ha mai conosciuto il padre, un nazista capo della Gestapo di Linz e attivo nella Polonia occupata dai nazisti, ricercato dalla polizia federale austriaca per crimini di guerra. Si è messo sulle sue tracce per sapere chi egli fosse veramente stato, che cosa avesse fatto, accettando di pagare il prezzo del disfacimento dell’universo familiare. Nella rottura con l’amata nonna, che gli chiede la promessa di non sposarsi mai con una polacca o un’ebrea, ci sono il senso e il peso del viaggio di Pollack, che ricostruisce l’idea più alta di una cartografia umana dell’Europa scevra da rimozioni forzate.

Ha ragione Magris quando così descrive un’esigenza che li accomuna: «La passione per il paesaggio, per la lettura del paesaggio, guardato e vissuto, letto come si legge un viso, o un manoscritto su cui la Storia e le storie hanno continuato a scrivere, a incidere vicende dolorose e avventurose, senza mai cancellare il passato inciso indelebilmente ma correggendolo e modificandolo di continuo».

La bellezza a tratti struggente di Galizia (Keller, traduzione a cura di Fabio Cremonesi, 247 pagine, 18 euro) esprime questa apertura dello scrittore al mondo, che ha saputo muoversi con onestà e pietas dentro paesaggi appunto contaminati. Nelle cronache e nelle leggende che animano la Galizia, esperimento di convivenza etnica e culturale che evade il concetto stesso di confine, c’è molto di più del tentativo di trasmettere l’eredità della Mitteleuropa perduta. Pollack narra nient’altro che la sfida dell’oggi, quello che intendiamo essere rispetto al diverso dentro al movimento incessante dei popoli.

Per usare ancora le parole di Magris: «La conoscenza, l’incontro, la mescolanza sono necessari, ma non sufficienti; possono favorire l’amicizia e l’amore ma anche l’insofferenza, il rifiuto e l’odio. Questa Babele di tanti popoli, di tante innumerevoli e affascinanti diversità descritte in Galizia è un crogiolo che si fonde e ci si scinde, un alambicco che crea e può distruggere. Un universo inesauribile, meraviglioso e miserabile, vario come la vita stessa o forse anche più, ma anche talora feroce come la vita».

Con la bussola, così densa di umanità, costruita da Pollack ci si orienta dentro a luoghi di aspri contrasti sociali, povertà e analfabetismo radicati ai confini dell’Impero, dove i nomi stessi delle città cambiano come le forme di sovranità. Città nelle quali coabitavano il polacco, il tedesco, lo yiddish, il ruteno, e si parlava anche il romeno, l’ungherese, il russo. Respiriamo la ricca fragilità del multiculturalismo e l’ombra sempre incombente dei totalitarismi, derive esangui in tutte le proprie declinazioni.

Nel 1772 con la prima spartizione della Polonia, il regno di Galizia e Lodomiria, come veniva denominata la più grande tra le terre della Corona d’Asburgo, era passato all’Austria. Dal 1849 Galizia e Bucovina, la cui realtà era molto distante da Vienna, costituivano una terra della Corona con rango pari a quello di un ducato. «Quando un ufficiale o un funzionario veniva mandato in Galizia per portare l’ordine imperiale in quelle terre inospitali, si sentiva come se l’avessero esiliato. Con la Prima Guerra Mondiale molti tedeschi e austriaci entrarono per la prima volta in contatto con queste regioni. Le battaglie di Leopoli, Przemyśl e Grodek fecero sì che il nome della Galizia diventasse sinonimo della crudele insensatezza della guerra», dice Pollack. Nel 1918 venne annessa alla rediviva Polonia, la Bucovina alla Romania. Il genocidio nazista, e poi la violenza dello stalinismo portarono a compimento la distruzione dell’entità multiculturale di queste regioni.

Di stazione ferroviaria in stazione le guide di Pollack sono state quegli autori ebrei, tedeschi, polacchi e ucraini che hanno fatto della Galizia e della Bucovina, parte d’Europa più tormentata da conflitti e tragedie nel Ventesimo secolo, un luogo letterario fecondo. Le pagine del poeta e giornalista Karl Emil Franzos, che per quel mondo trovò la definizione di Mezza Asia, Joseph Roth e Bruno Schulz, assassinato dalle SS, sono tra le più significative riportate nel libro. Incontriamo la realtà frastagliata delle centinaia di migliaia di ebrei galiziani immersi in una società agricola arretrata, che si muoveva a piccoli passi verso l’era industriale, sospesi tra il desiderio chiamato Palestina e l’assimilazione. C’è l’emigrazione di massa verso l’America con i rappresentanti delle agenzie marittime che procuravano il carico di esseri umani per i loro piroscafi. Da fine Ottocento al 1914 dalla Galizia emigrò circa un milione di persone, in maggioranza piccoli contadini e proprietari terrieri. Incrociamo popoli misteriosi come gli Huzuli, seminomadi sulle montagne galiziano-ungheresi.

È particolarmente interessante il capitolo dedicato a Drohobyč, capitale dei coltivatori di cipolle, polverosa e sonnolenta città di provincia nella Galizia orientale, stravolta dal repentino e disordinato sviluppo dell’industria petrolifera. I ricchi campi petroliferi della Galizia austroungarica attirarono tutte le speculazioni legate al greggio, che arricchisce pochi. La stazione Nord di Vienna fu il primo edificio pubblico illuminato con il cherosene di Drohobyč. Le prime torri di trivellazione spuntarono nei Carpazi a metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, importate da ingegneri nordamericani. Nel suo viaggio immaginario Pollack riesce davvero a cogliere e trasmettere la potenza delle trasformazioni economiche, sociali e culturali.

Colpisce l’amore per i giornali nella città di Černivci, i cui abitanti erano lettori appassionati: «La lettura dei grandi giornali di Vienna, Praga e Leopoli li aiutava a vincere il senso di isolamento in questo angolo remoto dell’impero austroungarico, in cui non c’era un collegamento ferroviario diretto con Vienna, capitale e sede dell’impero». A Černivci si pubblicavano più quotidiani rispetto a qualunque altra città austriaca di dimensioni paragonabili. E ogni piccolo articolo di cronaca meritava le pagine letterarie, anche quando si trattava di un furto o di un suicidio – testimonia lo scrittore. Di un suicida non hanno pietà, cantava De Andrè. In due pagine, apparentemente secondarie, rintracciamo l’anima di Pollack, che posa l’attenzione e riporta la cronaca della morte di un giovane, che si toglie la vita illuminandone il mistero. Ci mostra la sua idea di giornalismo che sa mischiarsi con cura e profondità nella quotidianità.

Le città di questa regione sono microcosmi mutevoli, generatori e contenitori di differenze. Galizia mostra la contraddizione, come quella degli ebrei che vogliono elevarsi con la cultura tedesca, se ne considerano portatori per venire progressivamente respinti dall’antisemitismo. Pollack ama in fondo raccontare l’esistenza degli ultimi, gli espulsi dalla Storia, ricordandoci che povertà e miseria non coincidono.

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