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Mafia nei Balcani, tra omicidi e collusioni col potere politico

Due clan montenegrini, quello di Škaljari e quello di Kavač, con forti influenze nel sottobosco criminale dei Balcani sono in guerra. Una corposa e dettagliata inchiesta, svolta da giornalisti di varie testate, ha messo a nudo la fitta rete di intrecci tra potere politico, polizia e criminalità

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(Originariamente pubblicato dal portale KRIK il 5 maggio 2020)

L’1 gennaio 2018, l’agente della polizia serba Marija Nikolić, in quel momento fuori servizio, stava passeggiando a Kopaonik insieme a due uomini: uno era membro di un’organizzazione criminale montenegrina nota come clan di Kavač e l’altro un hooligan vicino a questo gruppo criminale.

Lo stesso giorno, nove ore più tardi, quel membro del clan di Kavač, Dalibor Baltić, è stato ucciso a Belgrado, colpito da una scarica di proiettili mentre entrava con una Golf 7 nel garage del palazzo in cui viveva nel quartiere di Vračar. Accanto a lui stava seduta Marija Nikolić, questa volta con la divisa. Baltić è stato ucciso nella guerra tra il suo clan e la banda rivale, nota come clan di Škaljari.

Entrambi gli episodi – la passeggiata a Kopaonik e l’omicidio a Belgrado – sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza. Il video dell’omicidio e un’immagine ripresa a Kopaonik, pubblicati in esclusiva da KRIK, rivelano due cose importanti riguardanti la guerra tra due gruppi criminali che dura ormai da anni.

Il video dell’agguato avvenuto nel garage dimostra che gli omicidi spesso vengono eseguiti con una precisione da professionisti. Baltić è stato ucciso da due persone che erano entrate nel garage correndo dietro alla Golf. Prima hanno girato intorno alla macchina e poi hanno sparato: un killer aveva una pistola e l’altro un’arma semiautomatica. Sono stati talmente precisi da riuscire a uccidere Baltić senza sfiorare la poliziotta nemmeno con un proiettile.

La fotografia dell’incontro a Kopanik è una delle poche testimonianze che confermano l’esistenza di un legame tra polizia, criminalità organizzata e hooligan. Uroš Ljubojević, che aveva partecipato all’incontro con la poliziotta e Baltić, è membro del gruppo di ultras “Janjičari” che intrattiene stretti legami con alcuni politici al potere in Serbia.

Marija Nikolić è attualmente sotto processo perché dopo l’omicidio di Baltić aveva preso e nascosto la sua pistola. Nikolić ha raccontato in aula che era sotto shock e che non si era nemmeno resa conto di aver gettato la pistola di Baltić in un cassonetto dell’immondizia tre strade più in là dal luogo in cui era avvenuto l’agguato. Ha detto che quella sera doveva lavorare nel quartiere in cui viveva Baltić, e per questo che era in macchina con lui.

Né il procuratore né il giudice hanno chiesto a Marija Nikolić perché quel giorno fosse andata con Baltić a Kopaonik, situato a circa quattro ore di macchina da Belgrado, per poi tornare con lui nella capitale. Finora non è stato rivelato nulla nemmeno sui legami tra Nikolić e quel membro del gruppo di ultras “Janjičari”.

Baltić è solo uno dei tanti criminali uccisi nella guerra tra il clan di Kavač e quello di Škaljari, che prendono il nome da due frazioni del comune di Kotor, in Montenegro.

Le frazioni di Kavač e Škaljari, Bocche di Cattaro (foto: MANS)

Le frazioni di Kavač e Škaljari, Bocche di Cattaro (foto: MANS)

I due clan hanno operato insieme, contrabbandando stupefacenti dall’America Latina verso l’Europa, fino al 2014 quando si sono scontrati per la gestione del traffico di cocaina. Uno scontro che sta diventato sempre più acceso e vede coinvolti anche altri gruppi criminali che operano nei Balcani.

I giornalisti di KRIK, insieme ai loro colleghi della Rete per l’affermazione del settore non governativo (MANS) di Podgorica e dell’organizzazione internazionale Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), hanno indagato in modo dettagliato su questa guerra di mafia, in modo da poter ricostruire un quadro completo di questo scontro che ha infiammato i Balcani, per poi diffondersi anche in altri paesi europei.

Durante l’inchiesta, i giornalisti hanno raccolto numerosi documenti ottenuti dalla polizia, dalla procura, da alcuni tribunali e dalla BIA [servizi segreti serbi], e hanno parlato con alcune persone che conoscono bene il panorama della criminalità organizzata nei Balcani. Le informazioni raccolte suggeriscono che la guerra tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač ha diviso il sottobosco criminale dei Balcani. Anche alcuni agenti della polizia serba e di quella montenegrina hanno preso posizione in questo scontro, ed entrambi i clan, soprattutto quello di Kavač, intrattengono stretti legami con il potere politico.

Come dimostra un’analisi realizzata dai giornalisti di KRIK e OCCRP sulla base di documenti ufficiali e di informazioni ottenute da varie fonti, dal 2015 ad oggi almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra i due gruppi criminali. Tra le vittime degli scontri, oltre ai criminali, ci sono anche i loro familiari e collaboratori, tra cui un avvocato ed ex deputato del parlamento montenegrino. Ci sono anche delle vittime casuali: un uomo ha perso la vita in una sparatoria avvenuta nel 2018 in un bar a Podgorica in cui è stato ucciso un membro del clan di Kavač. Due anni prima, nel 2016, in un bar a Bečići è stato ucciso un medico serbo che stava seduto vicino ad un criminale che era il vero obiettivo dell’agguato.

La guerra tra due clan si è diffusa anche al di fuori dei Balcani: alcuni omicidi sono stati commessi in Spagna, Germania, Austria, Paesi Bassi e, più recentemente, in Grecia.

L’inchiesta di KRIK ha inoltre rivelato che i criminali legati ai due clan a volte ingaggiano degli stranieri per compiere un omicidio, compresi alcuni mercenari che hanno combattuto in Iraq. Alcuni di questi killer sono stati reclutati tramite la Legione straniera francese.

Nulla illustra meglio il modo in cui due clan montenegrini operano, ingaggiano dei killer, scelgono le loro vittime e compiono omicidi delle testimonianze di alcuni criminali, tra cui un giovane uomo proveniente dal Sudafrica ingaggiato dal clan di Kavač per eseguire un omicidio, e un ex membro del clan di Škaljari, diventato testimone protetto, il quale ha raccontato che era stato pianificato anche l’omicidio – mai portato a termine – del procuratore generale del Montenegro. I giornalisti di KRIK e MANS sono venuti in possesso delle testimonianze che questi due criminali hanno reso alla procura. In questo articolo ne riportiamo alcune parti.

Ascesa e scissione del clan di Škaljari

Prima dello scoppio della guerra di mafia attualmente in corso, in Montenegro c’era solo un clan, quello di Škaljari.

L’ascesa del clan di Škaljari è legata alla caduta di un altro gruppo criminale, molto più noto, dedito al contrabbando di sostanze stupefacenti: il cartello guidato da Darko Šarić. In un rapporto della BIA, di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso, il gruppo di Šarić è descritto come “un tempo una delle più potenti organizzazioni criminali nella regione, che comprende diversi gruppi criminali [attivi] sul territorio dell’ex Jugoslavia, con oltre 100 membri, che, tramite cellule operative autonome, sparse in diversi paesi d’Europa e dell’America Latina, hanno operato su scala globale”.

Tuttavia, nel 2009 il cartello di Šarić subì un duro colpo. Un’operazione di polizia internazionale denominata “Balkanski ratnik” [Guerriero balcanico] mise praticamente in ginocchio il gruppo di Šarić, vennero arrestati molti membri del gruppo, e lo stesso Šarić finì in carcere in Serbia. Il processo nei suoi confronti è ancora in corso.

La caduta del clan di Šarić ha aperto ampio spazio per altri gruppi criminali e un clan fino ad allora poco noto, quello appunto di Škaljari, ha approfittato dell’occasione.

“Dopo l’azione ‘Balkanski ratnik’ […] alcuni gruppi criminali hanno preso le redini di una parte delle attività del ‘clan di Šarić’ legate al contrabbando di narcotici”, si legge nel rapporto della BIA.

Poco dopo l’operazione “Balkanski ratnik” è stato ucciso anche uno dei più stretti collaboratori di Šarić, Dragan Dudić, che gestiva gli affari del gruppo di Šarić a Kotor, dove era attivo anche il clan di Škaljari. Dudić è stato ucciso mentre stava seduto con un amico in un bar nella Città vecchia di Kotor. Il suo assassino, Ivan Vračar, è citato nel rapporto della BIA come membro del clan di Škaljari.

Come si legge nel rapporto della BIA, “dopo l’omicidio di Dragan Dudić, soprannominato Fric, membro di spicco del clan di Šarić, avvenuto nel 2010 a Kotor, il clan di Škaljari, guidato da Jovan Vukotić, ha assunto il controllo di gran parte delle attività di Dudić legate all’organizzazione del traffico di narcotici dall’America Latina verso l’Europa”.

Nel rapporto si afferma inoltre che Vukotić “nel 2016 ha organizzato un’azione in cui è stata data alle fiamme la discoteca ‘Maximus’ a Kotor, di proprietà, seppur non ufficialmente, dei fratelli Šarić”.

Mentre si moltiplicavano le accuse sollevate contro i membri del gruppo di Šarić – che per un certo tempo era latitante, per poi finire in carcere in Serbia – , i membri del clan di Škaljari pian piano stavano diventando i nuovi padroni del sottobosco criminale balcanico.

Ma l’ascesa non è durata a lungo.

Nonostante i suoi affari fiorissero, all’interno del clan hanno cominciato a sorgere dei dissidi.

“[Stavano diventando] sempre più frequenti gli scontri tra correnti contrapposte all’interno del clan di Škaljari sulla ripartizione delle risorse finanziarie ottenute illegalmente”, si afferma nel rapporto della BIA.

Secondo la BIA e alcune persone che conoscono bene le dinamiche criminali, la tensione tra gruppi contrapposti ha raggiunto l’apice nel 2014 a seguito di una lite sulla spartizione della cocaina, avvenuta a Valencia, in Spagna.

I vertici del clan di Škaljari hanno trovato, in un magazzino che avevano preso in affitto a Valencia, 200 chilogrammi di cocaina di cui non conoscevano la provenienza. A nascondere la droga nel magazzino – come emerso in seguito – erano stati alcuni dei loro collaboratori, e i leader del clan, per punirli, si sono impossessati della droga.

Dopo questo episodio la parte danneggiata, cioè il gruppo che è stato privato del bottino, si è separato dal clan di Škaljari.

“Così è nato il clan di Kavač, guidato da Slobodan Kašćelan e Radoje Zvicer”, si legge nel rapporto della BIA.

“Dopo questo episodio riguardante la cocaina, [i membri dei due clan] sono diventati paranoici, temendo di essere attaccati dal gruppo rivale”, ha raccontato ai giornalisti di KRIK una persona ben informata della vicenda. “Alcune persone non appartenenti a nessuno dei due gruppi hanno alimentato questa paranoia, tifando affinché i due clan si scontrassero tra loro”.

Poco dopo quell’episodio, all’inizio del 2015, a Belgrado è stato ucciso uno degli esponenti di spicco del clan di Škaljari, Goran Radoman. Il suo omicidio ha segnato l’inizio della guerra tra i due clan, conflitto che ha già portato via decine di vite e continua a infuriare.

Carneficina balcanica

Si sa con certezza che almeno 41 persone sono state uccise nella guerra tra due clan rivali, ma – come dimostra l’analisi condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP – il numero reale delle vittime è probabilmente più alto.

Dalla documentazione raccolta emerge che gran parte degli omicidi è stata eseguita con professionalità e precisione, come nel caso dell’omicidio di Baltić, avvenuto nel garage sotterraneo a Belgrado. Alcune delle vittime sono state uccise a colpi di pistola o un’altra arma automatica, mentre altre sono morte nell’esplosione di un’autobomba o di un ordigno nascosto lungo la strada. In almeno due casi, gli assassini hanno usato un fucile di precisione.

Il caso più incredibile è quello dell’omicidio di un criminale ucciso con un fucile di precisione mentre si trovava in carcere.

Nel settembre 2016, Dalibor Đurić, membro del clan di Škaljari, condannato per estorsione, stava passeggiando nel cortile del carcere di Spuž quando è stato colpito al petto da un proiettile sparato da un fucile di precisione. L’assassino lo aspettava nascosto sulla riva destra del fiume Zeta che serpeggia intorno al carcere di Spuž, situato a una quindicina di chilometri da Podgorica.

L’automobile usata dall’assassino per arrivare e fuggire dal luogo da cui aveva sparato è stata trovata bruciata, insieme all’arma utilizzata per compiere l’omicidio. Due uomini che hanno dato alle fiamme l’automobile e hanno aiutato l’assassino a fuggire sono stati condannati in primo grado. Durante il processo non hanno voluto rivelare l’identità dell’assassino.

Un’altra novità introdotta da questi gruppi criminali consiste nell’uso di maschere in silicone durante gli agguati. Queste maschere, che riproducono il volto umano e possono trarre in inganno gli agenti di polizia, sono state ritrovate in più occasioni dalla polizia montenegrina.

Maschera di silicone (foto Polizia del Montenegro)

Maschera di silicone (foto Polizia del Montenegro)

I membri dei due clan hanno più volte ingaggiato dei killer, professionisti o dilettanti, a seconda del tipo di vittima e della modalità di esecuzione dell’omicidio. Hanno reclutato in più occasioni anche cittadini stranieri, tra cui – come hanno scoperto i giornalisti di KRIK – c’erano anche alcuni militari professionisti, cioè i mercenari.

La testimonianza più dettagliata di questa prassi è quella di Gregory Michael Ferraris, un giovane uomo proveniente dal Sudafrica, reclutato nel 2015 dal clan di Kavač per compiere un omicidio. Ferraris all’epoca aveva 24 anni.

Gregory Ferraris è stato arrestato prima di compiere l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. La testimonianza resa da Ferraris al procuratore montenegrino – di cui KRIK è venuto in possesso – ci consente di comprendere il modo in cui i due clan montenegrini reclutano i killer e con quanta precisione pianificano gli omicidi.

Ferraris aveva conosciuto Aleksandar Marković, membro del clan di Kavač e militare professionista, in Francia, dove entrambi avevano fatto domanda per entrare nella Legione straniera francese.

“Non ci hanno fatto entrare, io [non sono stato ammesso] a causa del mio passato non proprio limpido, perché consumavo cocaina”, ha raccontato Ferraris alla procura.

Mentre era in un centro di reclutamento della Legione straniera a Parigi Ferraris aveva conosciuto un mercenario americano appena rientrato dall’Iraq, che su un braccio aveva un tatuaggio che recitava: “ISIS Hunting Club” [Club di cacciatori di miliziani dell’Isis], mentre su una spalla aveva un tatuaggio raffigurante un cranio umano con i colori della bandiera francese, e sull’altra spalla un tatuaggio della bandiera americana. Ferraris ha raccontato che Marković gli aveva detto che i membri del clan di Kavač avevano ingaggiato quel mercenario americano per eseguire un omicidio piuttosto complicato.

“Io non ero adatto per compiere quell’omicidio, perché loro avevano bisogno di persone appositamente addestrate, cioè in grado di entrare silenziosamente in casa, compiere silenziosamente l’omicidio e lasciare nello stesso modo il luogo del delitto”, ha raccontato Ferraris, che prima di tentare di arruolarsi nella Legione straniera lavorava come istruttore di fitness.

Alla fine Ferraris era stato ingaggiato dal clan di Kavač per un incarico meno impegnativo.

Un mese dopo essersi conosciuti, Marković aveva offerto a Ferraris 50.000 euro per compiere un omicidio.

“Avevo accettato la proposta di Aleksandar di unirmi a loro e di eseguire un omicidio perché ero rimasto completamente senza soldi”, si legge nella dichiarazione che Ferraris ha reso alla procura.

Ferraris ha raccontato che i membri del clan di Kavač gli avevano comprato un biglietto aereo per Belgrado, dove si era incontrato con Marković. Da lì avevano preso un treno per raggiungere un piccolo paese situato vicino al confine tra Serbia e Montenegro.

“Prima della frontiera, io e Aleksandar siamo scesi dal treno, e poi ci siamo separati. Marković è salito su una macchina ed è andato in Montenegro”.

Ferraris invece è entrato in Montenegro illegalmente: ha attraversato il confine a piedi accompagnato da una guida. Una volta entrato nel territorio del Montenegro, alcuni membri del clan di Kavač sono venuti a prenderlo con quella stessa macchina su cui era salito Marković, ma prima di raggiungere la loro destinazione finale, Budva, hanno più volte cambiato auto.

Una volta arrivati a Budva i membri del clan di Kavač hanno sistemato Ferraris in un appartamento dicendogli di aspettare il via libera per uccidere il suo bersaglio, Goran Đuričković, membro del clan di Škaljari e proprietario del ristorante “The Old Fisherman’s Pub” situato sul lungomare di Budva.

“Aleksandar Marković mi ha detto che il proprietario di quel ristorante e alcuni uomini del suo entourage erano stati direttamente coinvolti nel furto di 200 kg di cocaina”, ha raccontato Ferraris riferendosi all’episodio accaduto a Valencia. “Mi ha detto di sparargli almeno cinque colpi per essere sicuro di averlo ucciso e per lanciare un avvertimento con il suo omicidio a tutti quelli che in Montenegro si occupano del traffico di droga”.

Marković gli ha inoltre detto che, una volta ucciso Đuričković, il clan di Kavač avrebbe “iniziato una guerra contro tutti quelli che in Montenegro sono coinvolti negli affari legati alla droga”.

Mentre stava aspettando di portare a termine quell’omicidio, Ferraris è stato ingaggiato dal clan di Kavač per compiere un altro lavoro, ovvero per acquistare due moto. “[Dopo l’omicidio] un uomo avrebbe dovuto portarmi su una moto in un nascondiglio nelle montagne […]. [La seconda moto] avrebbe dovuto essere usata nel successivo lavoro, al quale io non dovevo partecipare”, ha affermato Ferraris.

Dopo l’acquisto di una moto, Ferraris ha visto un uomo scendere da un’automobile color argento e salire su quella moto. Marković gli ha presentato quell’uomo come “capo della mafia montenegrina”.

“Marković mi ha detto che io e lui lavoriamo per quella persona e che quella persona aveva ordinato l’omicidio del proprietario del ristorante”, ha raccontato Ferraris aggiungendo: “In quell’occasione [Marković] mi ha detto che il capo della mafia montenegrina vive nella città vecchia di Kotor e che appartiene a una delle famiglie più ricche del Montenegro”.

In attesa del via libera per commettere l’omicidio, che stava diventando sempre più lunga, Ferraris ha iniziato ad avere dei ripensamenti.

“Ho pensato di mollare tutto. Ma non ne ho parlato con loro, perché mi è stato detto che una persona aveva deciso di non compiere un omicidio pianificato in precedenza, e poi loro hanno ucciso quella persona”, ha affermato Ferraris.

Ferraris non ha mai compiuto l’omicidio per il quale era stato ingaggiato. È stato fermato dalla polizia mentre guidava una BMW e gli agenti hanno notato un dettaglio strano, ovvero il fatto che Ferraris indossava guanti chirurgici. È stato arrestato perché non aveva con sé nessun documento d’identità, poi è anche emerso che la macchina che guidava aveva targhe false. A quel punto Ferraris ha deciso di raccontare tutto alla polizia.

Nel processo Ferraris è stato difeso Borivoje Borović, noto avvocato belgradese, che gli ha consigliato di revocare la dichiarazione resa alla procura. Durante il processo non ha rivelato l’identità di nessuno dei membri del clan di Kavač coinvolti nella vicenda. Ferraris è stato condannato a cinque anni di reclusione, mentre ad Aleksandar Marković, che lo aveva reclutato, è stata comminata una pena di sei anni di reclusione.

Goran Đuričković è sfuggito alla morte, grazie all’arresto di Ferraris, ma non per molto: è stato ucciso cinque mesi più tardi da un proiettile sparato da un fucile di precisione mentre si trovava nel suo ristorante. Dopo essere stato colpito dal proiettile, Đuričković è caduto in mare.

Secondo la procura montenegrina, l’omicidio di Đuričković è stato compiuto da un tiratore proveniente dalla Republika Srpska, Srđan Popović che è accusato di aver sparato a Đuričković dalle mura della città vecchia di Budva.

A giudicare dalla dichiarazione resa alla polizia dopo l’omicidio del suo padrino ed ex deputato del parlamento montenegrino Saša Marković, Đuričković sapeva di essere nel mirino del clan di Kavač. Ha detto alla polizia che era possibile che Marković fosse stato ucciso perché era legato a lui, aggiungendo di essere consapevole delle tensioni suscitate dall’episodio di Valencia e del fatto che il suo nome veniva citato in riferimento a quella vicenda.

Un’altra testimonianza, oltre a quella di Ferraris, ci ha aiutato a capire meglio come i clan montenegrini pianificano gli omicidi dei loro rivali. Si tratta della dichiarazione di un testimone di giustizia il cui nome in codice è Jadranko Jonski. Jonski, che era membro del gruppo di Ranko Radulović, vicino al clan di Škaljari, ha spiegato alla procura montenegrina come operano i due clan rivali. La sua testimonianza ha contribuito ad arrivare alle condanne di molti membri dei due gruppi criminali.

Jonski ha raccontato che i due clan avevano raggiunto un accordo per uno “scambio di alibi”, cioè – come si legge nei documenti del tribunale – “il collaboratore di giustizia [Jonski] avrebbe dovuto compiere un omicidio per conto del clan di Škaljari, mentre gli uomini del clan di Škaljari avrebbero dovuto compiere un omicidio per contro del gruppo di Radulović”.

Jonski ha raccontato che i bersagli di questi omicidi erano alcuni “nemici” del clan di Škaljari, cioè “persone che operavano contro il clan”. Inoltre, il gruppo di Radulović – come ha spiegato Jonski – raccoglieva informazioni, per conto del clan di Škaljari, sui movimenti di Slobodan Kašćelan, leader del clan rivale, quello di Kavač. Stando alle parole di Jonski, il clan di Škaljari aveva pianificato l’omicidio di Kašćelan, senza però portarlo a termine.

Man mano che lo scontro tra i due clan rivali si acuiva, i loro membri stavano diventando sempre più audaci nel compiere omicidi pianificati.

Jonski ha raccontato che avevano persino pianificato l’assassinio del procuratore speciale del Montenegro Milivoje Katnić.

“Ranko Radulović ha detto che, se non dovessero riuscire a uccidere Katnić, potrebbero uccidere suo figlio, che non bada ai propri movimenti, passa la maggior parte del tempo con la sua ragazza ed è un bersaglio facile”, ha affermato Jonski.

Jonski ha inoltre raccontato che un membro del gruppo di Radulović gli aveva confidato di aver partecipato all’omicidio di un calciatore montenegrino.

Nel settembre 2017, il calciatore Goran Lenac, vicino al clan di Kavač, stava facendo flessioni nello stadio di Kotor quando era stato avvicinato da Nikola Mršić che gli aveva sparato uccidendolo. Mršić era fuggito dal luogo del delitto e, dopo tre anni di latitanza, è stato arrestato nel marzo di quest’anno.

In cerca di alleati in Serbia

Con il passare del tempo la guerra tra due clan montenegrini si è diffusa, come c’era da aspettarsi, anche in Serbia, dove entrambi i gruppi erano alla ricerca di alleati.

“Gli interessi di entrambi i clan criminali di Kotor, in conflitto tra loro, gravitano intorno alla Serbia. Negli ultimi decenni la mafia montenegrina è stata molto attiva sul territorio della Serbia, dove esercita una forte influenza sulle dinamiche interne all’ambiente malavitoso”, si legge in un rapporto della BIA del 2018.

“Delle dimensioni raggiunte dallo scontro tra il clan di Škaljari e il clan di Kavač testimoniano anche alcune informazioni secondo cui [negli ultimi anni] all’interno dell’ambiente criminale montenegrino e quello serbo si sarebbero verificate scissioni di non poco conto.”, si afferma nel rapporto della BIA di cui i giornalisti di KRIK e OCCRP hanno preso visione.

“Quasi tutti i gruppi criminali di un certo rilievo – si legge ancora nel rapporto – si sono schierati dalla parte dell’una o dell’altra di queste due organizzazioni criminali contrapposte”.

Il più importante partner del clan di Škaljari in Serbia è il gruppo guidato da Filip Korać, definito dalla BIA come “uno dei più pericolosi gruppi criminali che opera a livello internazionale”. Korać ha assunto la guida del gruppo dopo l’arresto del suo capo, Luka Bojović, avvenuto in Spagna nel 2012.

Il clan di Kavač, dal canto suo, ha trovato un alleato nel gruppo di ultras “Janjičari” che ha stretti legami con il potere politico in Serbia.

La politicizzazione del tifo

Gli ultras giocano un ruolo importante nel panorama criminale dei Balcani.

Sono inclini alla violenza e, oltre ad appoggiare alcune squadre di calcio, sono dediti alla vendita di stupefacenti. Inoltre, sono disposti a fornire appoggio a diversi gruppi criminali nella loro lotta per il controllo del territorio. Come ha rivelato l’inchiesta condotta dai giornalisti di KRIK e OCCRP, i gruppi di hooligan serbi sono legati, oltre che ai clan criminali, anche ad alcuni politici serbi.

Qualche anno fa il clan di Kavač aveva reclutato un gruppo di ultras grazie al quale aveva instaurato uno stretto rapporto con alcuni rappresentanti del potere in Serbia. All’epoca dei fatti il leader di questo gruppo, noto col nome di “Janjičari”, era Aleksandar Stanković, soprannominato Sale Mutavi, ucciso nell’ottobre del 2016.

Una rappresentazione grafica della struttura del clan di Kavač realizzata dalla polizia serba – di cui i giornalisti di KRIK sono venuti in possesso – illustra meglio di qualsiasi altra cosa gli stretti legami esistenti tra questo clan montenegrino e gruppi di hooligan serbi. Nell’organigramma in questione Aleksandar Stanković e i suoi collaboratori sono definiti come membri del clan di Kavač.

Stanković intratteneva stretti rapporti anche con i vertici della polizia serba. Era molto vicino a Nenad Vučković Vučko, uno dei membri di spicco della Gendarmeria.

Stanković e Vučković sono stati più volte fotografati insieme tra i tifosi durante le partite di calcio.

Esistono anche alcune prove che attestano l’esistenza di legami tra “Janjičari” e alcuni politici di spicco.

Come già rivelato da KRIK, uno dei membri del gruppo di Stanković era stato ingaggiato per garantire la sicurezza durante la cerimonia di insediamento di Aleksandar Vučić come nuovo presidente della Repubblica nel 2017, quando alcuni cittadini e giornalisti erano stati allontanati con forza dall’evento.

Il figlio del presidente Vučić, Danilo Vučić, è un amico di Aleksandar Vidojević, meglio noto come Aca Rošavi, uno dei membri di spicco del gruppo “Janjičari”. Vidojević è inserito nella banca dati della polizia serba come membro del clan di Kavač.

La vicinanza tra Aleksandar Vidojević e Danilo Vučić è testimoniata anche da alcune foto che li ritraggono insieme, scattate in diverse occasioni e in diversi periodi. Così, ad esempio, ai Mondiali di calcio 2018 in Russia, Vidojević e Danilo Vučić hanno tifato insieme durante la partita tra Serbia e Costa Rica. Poi nel gennaio di quest’anno sono stati fotografati insieme a Banja Luka durante la celebrazione del Giorno della Republika Srpska. I giornalisti di KRIK e OCCRP sono venuti in possesso anche di una fotografia, mai pubblicata finora, che ritrae Danilo Vučić mentre abbraccia Vidojević in un locale notturno. Non siamo riusciti però a scoprire quando è stata scattata questa fotografia.

Il gruppo di Stanković e il presidente Aleksandar Vučić sono legati anche tramite Novak Nedić. Nedić era segretario generale del governo serbo all’epoca in cui Vučić era primo ministro. In quel periodo – stando ad una denuncia sporta dal sindacato dell’esercito serbo – Nedić e Stanković spesso si esercitavano insieme al tiro a segno in un poligono di tiro militare. Lo studio legale del padre di Novak Nedić, Vojislav Nedić, ha difeso alcuni membri del gruppo “
Janjičari”.

L’entrata dello stato serbo nella guerra di mafia

Tenendo conto dei legami che Stanković aveva avuto con la polizia e con il potere politico, la reazione della leadership serba al suo omicidio diventa più comprensibile.

Stankovic è stato ucciso nell’ottobre 2016 a Belgrado, mentre saliva su un’Audi A6 dopo un allenamento in palestra. Nessuno è mai stato condannato per il suo omicidio, nonostante in un rapporto della BIA si affermi che dietro al delitto vi sarebbe il clan di Škaljari.

Il giorno dopo l’assassinio di Stanković il ministro dell’Interno serbo Nebojša Stefanović ha convocato una conferenza stampa in cui ha affermato: “Dichiariamo guerra alla mafia ed entriamo in questa guerra senza esitazioni né riserve”.

Invece di avviare una lotta non selettiva alla criminalità organizzata, lo stato ha dichiarato una guerra che sembra essere diretta solo contro una parte dell’ambiente criminale. In Serbia non è mai stato arrestato nessun membro di spicco del clan di Kavač. La polizia ha infatti focalizzato la sua attenzione sull’arresto dei membri del clan di Škaljari e dei loro collaboratori appartenenti

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