Lettere da Creta: Réthymno
Una Domenica delle Palme trascorsa sulla costa settentrionale di Creta. All’ingresso di ogni chiesa alcune donne con mani abili, confezionano piccole croci e stelle, con sottili foglie di palma, non ancora dischiuse
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Arrivo a Réthymno la mattina della Domenica delle Palme ortodossa, che coincide con la Pasqua cattolica. Cielo grigio, Libeccio teso, che qui sulla costa settentrionale di Creta viene da terra. Qualche goccia che sembra più fatta di sabbia rossa del deserto libico che di acqua del cielo cretese. Pochissima gente in giro, solo davanti alle chiese ci sono persone di tutte le età che entrano ed escono. Chiese vive, con una loro voce che si fa canto ortodosso e attrae irresistibilmente anche il pellegrino laico. Le si sente da lontano, poi seguendo il richiamo le si vede e ancor più da vicino si annusa l’odore. Così l’esperienza spirituale si fa corporea, con ogni senso per il fedele che bacia le icone e celebra l’eucarestia. Pane fermentato e vino rosso diluito con acqua, per gli ortodossi. Una necessaria materialità che in questa domenica di festa si sostanzia anche nel lavoro di alcune donne. All’ingresso di ogni chiesa, con mani abili, confezionano piccole croci e stelle, con sottili strisce vegetali che sono poi mezze foglie di palma, non ancora dischiuse. Ce ne sono ceste piene che i fedeli prendono, fanno benedire e conservano per tutto l’anno nei piccoli altari domestici, ai crocicchi delle strade o appese agli specchietti retrovisori delle auto.
Ne ho una anche io qui, ora, a mesi e chilometri di distanza, che uso da segnalibro per la mia unica guida di questo viaggio, il libro sacro della mia cretafilia; l’Odissea di Nikos Kazantzakis. La piccola croce s’è seccata, è ingiallita, s’è storta, ma restituisce tutta la atavica forza di un simbolo che prescinde dalla fede, almeno per me. E, dopo aver visto il suo Táphos a Iraklio, anche per Kazantzakis. Perché sul suo monumento funebre in pietra ci sono sì un epitaffio libertario, laico e disincantato del filosofo cipriota del II secolo a.C. Demonatte, ma c’è anche una umile croce. Due rami pastorali, che voglio immaginare di rovere, l’albero sacro agli dei.
Réthymno è la terza città, per dimensioni e importanza di Creta, a metà strada da Chanià a ovest e Iraklio a est. Posizione centrale, non solo geograficamente, ma anche nella lunga storia della dominazione veneziana. Qui infatti costruirono un porto e una città prima, una fortezza dopo. Qui facevano scalo le galee, cariche di pellegrini e mercanzie, in andata e ritorno.
Libeccio raffica selvaggio! Spirito ottomano che ritorna sulla Fortezza che conquistarono nel 1646 dopo feroci anni d’assedio, scrivo sul taccuino. Un Libeccio furioso che mi ha costretto a muovermi da un punto all’altro della fortezza camminando dove possibile radente ai muri nel sottovento, che mi ha fatto rifugiare dentro alla moschea sconsacrata, un tempo dedicata al sultano Ibrahin Khan. Costruita sulle fondamenta di quella che era stata per secoli la Cattedrale di San Nicola, al centro delle mura stellate. Costruita nella seconda metà del XV secolo dai veneziani, che già dominavano Creta da più di tre secoli, sulla collina di Paleokastro, in posizione dominante sulla rada portuale a est. Un governo che si faceva sempre più difficile, sottoposto alla pressione e alle scorrerie della pirateria turca che assalì e depredò la città nel 1571. Ciò che rimane della moschea sono gli spogli muri perimetrali, un cubo di pietra color sabbia sormontato da una grande cupola. Del minareto, in pietra bianca, rimane solo il basamento a destra dell’ingresso. Non una torre che sale nelle luci celesti, ma un pozzo che scende nelle ombre sotterranee. L’ambiente interno della ex-moschea, a pianta quadrata, è completamente spoglio. Degli antichi decori rimangono solo tracce di quelli del miḥrāb, la nicchia che indica al fedele la direzione della Mecca e della Kaʿba.
Dentro sono solo, mi siedo a terra e chiudo gli occhi. Il Libeccio è impertinente, fa vibrare le finestre facendo sentire la sua voce. Racconta storie di paroni e rais, di galere e sciabecchi, di guerra e di pace, di un Mediterraneo d’oriente di cui Creta è sempre stata l’ago calamitato, capace insieme di attrarre le navi e d’indicare la rotta.
Dalla fortezza scendo in città, sempre semideserta, e poi vado al porto. Avrei voluto andare verso il largo, vedere la città dal mare, camminando sulla lunga, nuova diga ma è blindata. Mi accontento così di una più breve passeggiata sulla diga del mandracchio veneziano. In testa il vecchio faro in pietra bianca, costruito dagli egiziani che governarono l’isola negli anni 30 dell’Ottocento, oggi in disuso. Mi siedo nel suo sottovento e riapro l’Odissea di Kazantzakis, la mia guida. Le sue parole anche qui si fanno immagini. “Una nave in vista!” / Fa eco la guardia sulla costa: “Sta entrando in porto” / L’Arciere salta a terra e grida: “Bentrovata, Creta!”. Così Nikos Kazantzakis racconta l’arrivo su quest’isola di Ulisse, del suo equipaggio e di Elena, la seduttrice “amante di molti uomini”, che è con loro.
ps
Chi ha letto anche le altre “Lettere da Creta” immagino avrà almeno già curiosato in rete e letto qualche pagina dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, pubblicata per la prima volta nel 1938, e da poco tradotta per la prima volta in italiano con maestria da Nicola Crocetti. Un libro che, come ho già scritto più volte, è stato la mia guida spirituale alla scoperta di Creta. Sulla straordinarietà poetica e mitica di quest’opera, 33.333 versi! in decaeptasillabi, divisi in 24 canti, con un proemio e un epilogo, sono uscite diverse recensioni tra cui suggerisco quella breve ma appassionata di Matteo Nucci, disponibile anche online . Aggiungo solo che imperdibili per alimentare la nostra cretafilia e più in generale la passione per la Grecia, sono anche le trenta pagine introduttive e in particolare il paragrafo “La lingua dell’Odissea”, scritta sempre da Nicola Crocetti.
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