La salute mentale in Bosnia
In Bosnia Erzegovina un malato di mente è ancora considerato, spesso, soltanto un soggetto da allontanare dalla società. Le case di cura sono per lo più vecchie caserme dell’esercito popolare jugoslavo. Il caso di Fojnica, le denunce dell’ombudsman
Amela lavora a Fojnica per l’Istituto “Drin”. Mi mostra i dormitori che si trovano all’ultimo piano dell’edificio. Si tratta per lo più di camerate, simili a quelle delle caserme o degli ospedali. Tra i letti c’è a malapena la distanza sufficiente per passare. “Al momento i problemi principali che dobbiamo affrontare sono soprattutto due – dice – la mancanza di soldi e, soprattutto, di spazio. La situazione è identica qui come altrove, in tutto il Paese”.
Una popolazione numerosa
In Bosnia Erzegovina la popolazione dei manicomi è ancora numerosa: un rapporto compilato dall’Ombudsman nel 2009 parla di circa duemila persone, di cui centoventi bambini. Gli istituti sono stipati al massimo, le liste di attesa sono fitte dei nominativi di chi non è ancora riuscito ad assicurarsi un posto.
E’ una situazione di disagio capace di minare gli stessi diritti fondamentali dei malati di mente. Diritti che pure la Bosnia Erzegovina ha riconosciuto, sottoscrivendo le principali convenzioni internazionali in materia, e recependole direttamente attraverso l’articolo 2 della Costituzione, norma che prevede per lo Stato l’obbligo “di concedere ai propri cittadini il livello massimo di tutela dei diritti umani, così come garantito dagli standard internazionali”. E che introduce, come parte integrante della Carta, la Convenzione Europea per la protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali del 1950.
La denuncia dell’Ombudsman
“Il problema”, taglia corto Jasminka Džumur, Ombudsman della Bosnia Erzegovina, “è che questi diritti spesso restano sulla carta”. Autrice del già citato rapporto, Džumur ha una visione abbastanza drastica della condizione delle case di cura e delle carenze del sistema bosniaco. “Questo Paese non ha le strutture per supplire alle esigenze della popolazione. Spesso esse accolgono un numero di persone doppio rispetto alla capacità effettiva”. Un malato di mente, in Bosnia Erzegovina, ha a propria disposizione mediamente soltanto quattro metri quadrati. “Ci possono essere anche quaranta individui nella medesima stanza, con un unico bagno. Questo è molto negativo per la loro condizione psicologica. A volte diventa addirittura un pericolo sotto il profilo sanitario”.
Le case di cura sono vecchie, spesso sono ex caserme della JNA (esercito popolare jugoslavo) riadattate in manicomi. Le camere sono disadorne, anonime, persino quelle dei bambini. E’ il sintomo più evidente di una vecchia mentalità, quella che nella Jugoslavia condannava i malati di mente all’isolamento, e che trattava la questione in termini esclusivamente medici.
Da questo giudizio discende probabilmente gran parte dei problemi odierni. Un malato di mente è ancora considerato, spesso, soltanto un soggetto da allontanare dalla società. Non c’è l’attenzione necessaria per riconoscere che ogni caso è unico. La categoria ‘malati di mente’ non ammette ulteriori discrimini legali. Sotto lo stesso tetto sono accolti soggetti con la sindrome di Down e individui con malattie psichiatriche, schizofrenici, veterani di guerra. In qualche caso anche criminali. “A Doboj Istok”, racconta Džumur, “un ragazzo che aveva ucciso la propria madre dormiva insieme a soggetti innocui. Una delle nostre prime richieste al governo è quella di rivedere la legge, in modo da garantire diversi trattamenti a seconda delle necessità del soggetto”.
La clinica Drin, a Fojnica
In questa situazione, molto è lasciato all’iniziativa del personale degli istituti. Non mancano esempi positivi che raccontano i tentativi di migliorare la situazione. La già citata clinica ‘Drin’, di Fojnica, è tra le migliori del Paese, ma le difficoltà restano evidenti.
“Fino a due anni fa – racconta la direttrice Samiha Hodžić – la gestione era molto tradizionalista. Da quando sono arrivata ho cercato di apportare dei miglioramenti, viaggiando a Trieste e a Torino per studiare la risposta italiana a questi problemi. Il nostro obiettivo – dice Samiha – è la riabilitazione dei nostri ospiti. Non siamo qui per rinchiuderli e buttare via la chiave. Vogliamo lavorare per il loro reinserimento nella società e, con un po’ di fortuna, già il prossimo anno i primi cinquanta pazienti potranno ritornare nelle loro comunità d’origine”.
La clinica ospita 520 persone. Tra le attività che vengono proposte, oltre a dei laboratori di cucito, falegnameria e pittura, c’è anche un programma di lavoro agricolo, competizioni sportive, gite. Un insieme di occupazioni che potrebbero quasi essere definite standard e che vengono riprese nella maggior parte degli istituti bosniaci, come ad esempio a Bakovići, dove i pazienti possono anche contare su un centro sportivo ad essi dedicato, istituito fin dal 1997.
Proprio la pratica sportiva ha un ruolo fondamentale nella cura degli individui affetti da invalidità mentale. Favorisce positivamente l’integrazione e la socializzazione. In più, offre loro la possibilità di uscire periodicamente dall’istituto: negli ultimi anni sono state anche organizzate delle vere e proprie olimpiadi nazionali a essi dedicate.
Purtroppo, nonostante gli sforzi, spesso mancano le condizioni per realizzare nuovi progetti. Mancano i soldi: il governo non finanzia gli Istituti, si limita a pagare loro una diaria per ogni soggetto ospitato. Una cifra che non consente miglioramenti strutturali.
Appartamenti in affitto
Un aiuto in questo senso arriva dalla società civile: accanto all’opera delle istituzioni c’è infatti una piccola galassia di organizzazioni non governative che assistono i malati di mente. L’associazione Sumero, che le accorpa, ha sede a Sarajevo e si occupa principalmente di sostenere i disabili mantenendoli nella comunità d’origine. Il direttore Haris Harović spiega: “Il primo problema è trovare un posto per queste persone che spesso sono abbandonate dalla propria famiglia. Noi affittiamo degli appartamenti in cui possono vivere e continuare ad avere un ruolo attivo nella società. Occorre un cambiamento dell’opinione pubblica in Bosnia Erzegovina. Bisogna capire che questi soggetti possono tranquillamente lavorare, sposarsi, essere indipendenti”.
Il futuro, però, non lascia intravedere molte speranze di miglioramento. Gli squilibri politici del Paese, la difficile situazione economica, rendono sempre più precaria la situazione di chi è impiegato in questo settore. Forse la cooperazione internazionale potrebbe essere parte della risposta, come già è avvenuto in questo campo durante la guerra.
L’esperienza di Trieste
Mario Reali, oggi consigliere comunale a Trieste, all’epoca era primario del Centro di Salute Mentale della città. Supervisionò un programma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in Bosnia, durante la guerra: “Paradossalmente, dice, i veri problemi sono cominciati con la pace, perché a partire da quel momento la comunità internazionale ha cominciato a disinteressarsi del Paese. Sarebbe una buona opportunità per l’Italia, e per la città di Trieste, incentivare la cooperazione in un campo in cui siamo all’avanguardia: anche e soprattutto a causa dei disturbi legati alla guerra, qui più che altrove le malattie mentali sono un fatto politico”.
Proprio l’istituto di Fojnica è al centro dei suoi ricordi: “La costruzione si trovava esattamente sulla linea di fuoco. Giunsi con un convoglio canadese, quasi tutto il personale se n’era andato, ad eccezione di qualche coraggioso infermiere. Isolati dal resto del mondo, i malati s’erano dati un governo e un’organizzazione: nonostante i lutti, sostenevano che fosse uno dei periodi migliori della loro vita”.
Gli anni dopo il 1995 sono stati la cronaca di una difficile ricostruzione. Un processo dal quale sta faticosamente emergendo il volto della nuova Bosnia Erzegovina. Se un giorno essa riuscirà a curare le proprie cicatrici, i settori più deboli della popolazione rischiano tuttavia di non poterne gioire. Questo vale soprattutto per i malati di mente, costretti al margine della politica e della società, condannati a vivere in un tempo che dagli anni Cinquanta sembra essersi fermato: per loro, il futuro è un po’ più distante.
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