La pubblicità online vi conosce bene
Il sistema di gestione della pubblicità online è basato sulla raccolta e la condivisione dei dati di comportamento dell’utente concentrata nelle mani di poche aziende, tra cui svetta Google. In pericolo privacy e protezione dei dati personali. In Europa si discute su come intervenire
“Abbiamo invitato la Commissione a considerare l’eliminazione graduale della pubblicità mirata, se non un suo divieto totale nell’Unione europea”. A dirlo è stato a inizio ottobre Alex Agius Saliba, membro maltese del Parlamento europeo. La stessa proposta è contenuta in un documento di raccomandazioni , votato all’unanimità nella Commissione affari legali del PE, redatto da Tiemo Wölken, europarlamentare tedesco.
Cos’è, come funziona e perché è un problema
La svolta che ha portato all’imposizione di questo sistema si può datare al 2007, quando Google rilevò la compagnia DoubleClick , che aveva costruito il proprio successo su un sistema di questo tipo e sulla creazione di un’ampia rete di inserzionisti, editori e agenzie pubblicitarie.
Ciò a cui fanno riferimento le dichiarazioni precedenti è il sistema della pubblicità mirata (in inglese targeted advertising), che mette al centro degli annunci pubblicitari l’utente e i dati legati al suo profilo. Fino ai primi anni 2000 la pubblicità online era basata sul contesto . Gli algoritmi analizzavano il contenuto della pagina visitata dall’utente e, in base a ciò che vi “leggevano”, stabilivano quali annunci mostrare negli spazi pubblicitari disponibili. Il contenuto pubblicitario era dunque basato sulle caratteristiche dello spazio web che lo ospitava, non di chi vi arrivava. Per fare un esempio: leggendo un articolo sull’andamento della stagione sciistica, poteva capitare di visualizzare la pubblicità di un hotel di montagna, o di un marchio d’abbigliamento tecnico per l’alta quota.
La pubblicità mirata si basa invece su un sistema più complesso, finalizzato a mostrare l’annuncio più pertinente rispetto al profilo dell’utente che sta visualizzando una certa pagina. Il sistema più sofisticato e diffuso oggi è quello delle aste automatizzate. Durante il caricamento della pagina, un identificativo che permette di associare un utente alla sua attività online (e talvolta offline) viene inviato a una serie di agenzie che competono in un’asta istantanea al fine di mostrargli l’annuncio più pertinente per il suo profilo. Il tutto in poche frazioni di secondo e senza che l’utente si accorga di nulla.
Secondo un report redatto nel 2018 da Johnny Ryan, al tempo collaboratore del browser Brave, attraverso il sistema delle aste automatizzate (real-time bidding, RTB) vengono condivisi, tra le altre cose: ciò che l’utente sta leggendo o guardando, la sua posizione, l’indirizzo IP, la descrizione del dispositivo, ecc. A seconda del sistema di RTB usato, possono circolare altri dati che permettono di associare un utente a caratteristiche quali fascia di reddito, età, genere, orientamento sessuale, etnia, religione, tendenze politiche, grado di influenza sui social media, ecc.
Visto dal punto di vista delle aziende che gestiscono le aste, su cui svetta Google, si tratta di un servizio che garantisce il massimo rendimento sia all’inserzionista sia all’utente: il primo ottiene la certezza che il proprio annuncio sia visualizzato da un utente interessato al suo prodotto o servizio; il secondo visualizza inserzioni più rilevanti rispetto ai propri bisogni e abitudini di spesa. Il vantaggio promesso ai gestori dei singoli siti web è una maggiore valorizzazione dei propri spazi pubblicitari. Offrire all’utente messaggi mirati si ritiene aumenti infatti il numero di clic sui banner e soprattutto le cosiddette “conversioni”, ovvero il numero di volte in cui un utente svolge l’azione suggerita, ad esempio fare un acquisto o installare una app. Più è pertinente la pubblicità, più l’utente sarà invogliato a cliccare, il che fa aumentare il valore di quello spazio pubblicitario.
Fonte: IAB Europe
Un’eccessiva concentrazione del mercato
Il sistema della pubblicità digitale mirata si basa su due elementi: lo sviluppo di piattaforme sempre più sofisticate di profilazione e gestione delle aste, e la raccolta di dati sull’utente. Il primo aspetto tende a favorire la concentrazione del mercato perché, come spesso capita nei settori ad alto contenuto tecnologico, sono le grandi compagnie ad avere le risorse necessarie per sviluppare le piattaforme. E quando non sono loro le prime a farlo, riescono facilmente ad acquisire eventuali nuove aziende particolarmente innovative.
Secondo un report dell’agenzia indipendente Plum relativo al Regno Unito , “Google, Facebook e, in misura minore, Amazon hanno una portata e un’ampiezza di mercato uniche nel mercato della pubblicità online, aiutata dalle loro attività in settori di mercato complementari. In particolare si distinguono per la grande quantità di inventari di pubblicità posseduti (cioè gli annunci e le relative visualizzazioni giornaliere garantite), piattaforme tecnologiche pubblicitarie avanzate (Google in particolare), tecnologie in mercati collegati (per esempio Google Chrome e Android), e una notevole quantità di dati proprietari, che gestiscono in sistemi chiusi (‘walled gardens’): raccolgono i dati degli utenti da diverse fonti, ma li condividono con i partner solo in forma aggregata”. Secondo lo stesso report, Google è leader nel Regno Unito nella fase intermediaria degli scambi pubblicitari, gestendo il 30-50 per cento dell’offerta e il 25-35 per cento della domanda, mentre l’80-90 per cento degli editori e inserzionisti utilizza i suoi servizi.
Gestendo praticamente tutta la catena di distribuzione, si creano situazioni di conflitti d’interesse e, secondo le informazioni raccolte da Plum, in passato i pacchetti di annunci gestiti da Google erano favoriti nelle aste automatizzate, a svantaggio degli altri inserzionisti. Sembra che poi tali pratiche siano cessate. Su un aspetto della vicenda si è espressa il 28 ottobre l’Autorità garante della concorrenza e del mercato in Italia: “Nel cruciale mercato della pubblicità online, che Google controlla anche grazie alla sua posizione dominante su larga parte della filiera digitale, l’Autorità contesta alla società l’utilizzo discriminatorio dell’enorme mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di poter competere in modo efficace”.
I problemi con la privacy e la protezione dei dati personali
Attualmente, almeno 22 organizzazioni che si occupano di diritti digitali hanno presentato istanze a diverse autorità europee per la tutela dei dati personali. I primi a sollevare la questione pubblicamente, nel 2018, sono stati Johnny Ryan e l’associazione Open Rights Group. All’inizio del 2019, l’organizzazione polacca Panoptykon ha presentato un’istanza simile alle autorità di Varsavia, rivolta contro Google e Interactive Advertising Bureau (IAB) Europe, sostenendo che i loro protocolli, che determinano le categorie usate nella raccolta dei dati degli utenti, violano diversi principi contenuti nel GDPR, il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali. IAB Europe ha risposto alle accuse sostenendo che il loro protocollo effettivamente permette di raccogliere tali informazioni e che sono le aziende che poi utilizzano i dati che sono tenute a rispettare la legge sulla tutela dei dati personali, e quindi è su queste che bisogna vigilare, piuttosto che sul protocollo.
A fine settembre 2020, l’Irish Council for Civil Liberties (ICCL), con cui oggi collabora Johnny Ryan, ha pubblicato ulteriori dettagli sui rischi e le conseguenze che tale massiccia e continua raccolta di dati personali comporta per gli utenti. La profilazione degli utenti può essere usata anche per operazioni che vanno oltre la pubblicità, o che usano determinate categorie di utenti per raggiungerli con annunci commerciali. Per esempio, il data broker
[1] OnAudience, che ha la sua sede principale in Polonia, ha usato i dati di profilazione di 1,4 milioni di persone , raccolti attraverso piattaforme di pubblicità mirata, per mostrare un messaggio politico a persone ritenute sensibili ai temi LGBTQ+. Anche se si parla di dati anonimi, a ogni utente è comunque associato un codice identificativo unico. Questo e altri “segmenti” di pubblico costruiti da OnAudience sono acquistabili attraverso le piattaforme di aste automatizzate di Google e di altre aziende, ed è possibile usare lo stesso database di utenti per rivolgere loro vari tipi di messaggi. ICCL ha dimostrato che attraverso il protocollo di Google sono state profilate 1.200 persone in Irlanda sotto le categorie “abuso di sostanze”, “diabete”, “dolore cronico”, “disturbi del sonno”. Con il protocollo di IAB, sempre in Irlanda, un data broker ha potuto profilare 1.300 persone sotto la categorie “Aids e Hiv”, “supporto di incesto e stupro”, “tumore al cervello”, “incontinenza” e “depressione”.
Numeri ben più alti sono quelli dichiarati da Mobilewalla, che solo in Europa sostiene di raccogliere dati sulla posizione di 117 milioni di dispositivi, per un totale di 61 miliardi di osservazioni al mese. Secondo il fondatore e CEO dell’azienda , Anindya Datta, un archivio di due anni di dati sulla posizione di una persona è sufficiente per costruire un’analisi dei comportamenti di chiunque. Per esempio, è possibile stabilire chi frequenta abitualmente una chiesa e raggiungerlo con un messaggio mirato quando vi si trova.
Recentemente, in un’indagine da parte dell’Autorità belga per la protezione dei dati personali si è arrivati alla conclusione che il sistema di trasparenza e consenso pubblicato dallo IAB (usato come standard di riferimento nel settore) viola diversi principi del GDPR: trasparenza, correttezza, responsabilità e legalità del trattamento dei dati. Secondo l’Irish Council for Civil Liberties, vi è in gioco anche l’articolo 5(f), sulla sicurezza dei dati, visto che non è possibile conoscere dove finiscano i dati una volta raccolti. La più recente evoluzione giudiziaria riguarda l’organizzazione Open Rights Group, che ha deciso di fare causa all’Autorità inglese per la protezione dei dati personali . Questo perché l’ICO (Information Commissioner’s Office, l’autorità anglosassone per la protezione dei dati), dopo avere stabilito nel 2019 che il sistema della pubblicità mirata operava in violazione del GDPR, ha comunque deciso di chiudere l’indagine a settembre di quest’anno, nonostante le sue stesse indicazioni non siano state applicate dagli operatori del settore.
Abbiamo chiesto un parere su questi aspetti a Paul De Hert, tra i massimi esperti in Europa sul rapporto tra privacy e tecnologia, e ad Alessandro Ortalda, ricercatore all’università di Bruxelles. I due ci hanno confermato il contrasto da sempre esistente tra pubblicità online e protezione dei dati personali, soprattutto in termini di trasparenza. Quest’ultima riguarda sia le informazioni fornite, sia il modo in cui queste sono presentate. “Nel contesto della navigazione su internet, in cui gli utenti saltano rapidamente da un contenuto all’altro, è difficile per il responsabile dei dati mettere a punto pratiche di gestione della privacy e moduli di raccolta del consenso che catturino l’attenzione delle persone. Queste infatti sono solite accettare frettolosamente tutto ciò che compare sullo schermo e puntare dritto al contenuto che stanno cercando. Ciò compromette l’efficacia della condivisione delle informazioni e può rendere nullo il consenso fornito dall’utente, che potrebbe non configurarsi come ‘informato’".
I dubbi sulla reale efficacia del sistema
L’associazione di categoria dell’industria digitale Digital Content Next, che ha tra i suoi membri alcune delle maggiori testate internazionali, ha dichiarato nel 2019 che se anche dovesse sparire il sistema della pubblicità digitale mirata “non cascherebbe il mondo”. A gennaio 2020 la televisione pubblica nazionale olandese NPO ha dichiarato di avere rimosso dai siti web del network ogni sistema di tracciamento dell’utente, scegliendo di vendere gli spazi pubblicitari solo su base contestuale. Secondo i dati condivisi da NPO e pubblicati da Brave , nei primi due mesi dell’anno la raccolta pubblicitaria della rete è aumentata rispettivamente del 62 e del 79 per cento. Da marzo, a causa della pandemia, il ritmo dell’incremento si è decisamente ridotto, ma la tendenza non si è comunque invertita.
È lecito dunque chiedersi se la pubblicità basata su aste automatizzate offra davvero dei vantaggi reali agli attori del mercato, oltre a chi gestisce le piattaforme di transazione. Secondo il ricercatore statunitense Tim Hwang, si sta formando una grande bolla attorno al settore della pubblicità digitale. Per il momento per il ricercatore sta prevalendo un atteggiamento di generale fiducia nel fatto che “una cosa così complessa non può non funzionare”, ma presto ci si potrebbe accorgere che in realtà il sistema di competizione per l’assegnazione degli spazi pubblicitari non produce un valore aggiunto significativo. Nel suo recente libro “Subprime attention crisis” , Hwang spiega che il problema principale rispetto alla misura dell’efficacia del sistema è che chi pubblica i dati coincide con chi offre i servizi: “IAB e la Association of National Advertisers sono tra i principali punti di riferimento per la ricerca nel mercato della pubblicità online, ma al contempo rappresentano gli interessi di tale industria. Manca un’istituzione solida e indipendente che faccia da contrappeso, che metta alla prova la veridicità delle loro affermazioni e faccia esperimenti per testare lo stato di salute del mercato”.
Il sistema della pubblicità digitale ha un problema di efficacia che era evidente anche prima dell’introduzione delle aste automatizzate e che non è cambiato dopo: il tasso di clic sugli annunci del servizio AdWords di Google è dello 0,46 per cento (meno di una persona ogni 200). Sembra inoltre che intorno al 50% degli accessi da smartphone provenga da utenti che hanno toccato per sbaglio su un annuncio.
Un altro elemento che influisce sulla misurabilità dei risultati è il fatto che molti di essi non saranno mai visualizzati dall’utente: se anche il sistema di aste determinasse con grande precisione quali annunci mostrare negli spazi della pagina, questi potrebbero essere caricati in fondo alla stessa o in aree poco visibili. Quello della visibilità degli annunci è un problema conosciuto dagli operatori, come dimostra un report di Google del 2014 dove si suggerisce che il 56,1 per cento delle pubblicità caricate online non siano mai viste da un essere umano.
L’industria della pubblicità mirata è riuscita comunque nel suo intento di farsi percepire come indispensabile da inserzionisti ed editori. Per farlo ha istituito un sistema che mette in crisi alcuni principi chiave di tutela della privacy e della protezione dei dati personali.
[1] I data broker sono compagnie che raccolgono dati, o li acquistano da altre aziende, e li aggregano tra loro. Lo scopo di alcuni data broker è offrire “pacchetti di profili” da rivendere ad altre aziende, per esempio quelle interessate all’invio di messaggi mirati (pubblicità, annunci politici, ecc.).
Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto Panelfit, cofinanziato dal programma Horizon 2020 della Commissione europea (grant agreement n. 788039). La Commissione non ha partecipato alla stesura del testo e non è responsabile per il suo contenuto. L’articolo rientra nella produzione giornalistica indipendente di EDJNet.
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