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La musica metafisica dei Širom

Loro definiscono la musica che suonano un folk che proviene da un universo parallelo. Con i Širom, gruppo sloveno, l’io più nascosto si fa musica

09/11/2017, Gianluca Grossi -

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E’ una musica trasversale, impossibile da catalogare, che prende spunto dalla volontà dei componenti della band di chiamare in causa l’io più nascosto, per tradurlo in successioni di note che per ovvie ragioni non hanno termini di paragoni. Se non fosse forse nell’idea iniziale di gruppi come i Sigur Ros che, ormai più di dieci anni fa, hanno dato vita a una musica eterea e raffinata, dove perfino il canto non è prioritario e asseconda senza indugi l’incedere di strumenti che dettano frasi pentagrammate insolute e inusuali.

Potrebbe essere questo il sunto dell’esperienza del trio sloveno Širom, da poco sulla breccia. I Can Be A Clay Snapper esce per la tak:til, succursale della ben più nota Glitterbeat, che ha tenuto a battesimo nomi come Damir Imamovic, Samba Touré, Tamikrest e gli italiani Sacri Cuori. Musica ambient? Sperimentale? Psichedelia? Forse nulla e allo stesso tempo tutto di questi paradigmi; ma c’è senz’altro il fantasma dell’improvvisazione a battere ciglio, che rimanda addirittura al jazz e a forme inesplorate di world e folk music. Loro si definiscono cultori del "folk immaginario" o del "folk proveniente da un universo parallelo". E, in effetti, ci aiutano queste terminologie a calarci nei meandri del loro suono ipnotico e inafferrabile.

In I Can Be A Clay Snapper sono cinque le canzoni, per quanto si possa parlare di canzoni, tutte a cavallo dei dieci minuti (tranne l’ultimo singhiozzo, "Ten Words"). "Just About Awake" e "Boats, Biding, Beware ", sono silenziose, placide, lontane, delicate, profumate di intenzioni che evocano l’est, dalla Slovenia fino al Sol Levante. La terza traccia, "Everything I Saw Is Fatal" è la più incalzante. Sembra post-jazz. E’ un’epifania di suoni che prevaricano qualunque tentativo di dedicare un senso alla melodia e alla poesia. Ma quando meno ce lo si aspetta, trascorso il primo minuto e mezzo di euforia catartica, si crolla nell’ennesimo mondo parallelo, dove a parlare sembra il banale ticchettio di gocce che cadono dall’alto in un tinello vuoto. "Maestro Kneading Screams Of Joy" (forse il brano migliore) dà speranze diverse, echeggiando suoni che rimandano agli strumenti a corde dell’Indonesia, del Borneo e dell’intera fascia geografica che fotografa da nord l’inafferrabile linea di Wallace, che ha dato i natali ai parametri biogeografici attuali. L’incedere del brano ricorda anche certe danze turche, e l’uso del violino è un indissolubile legame con le terre che dal Caucaso scivolano fino alle porte del Belpaese. I Širom, in sostanza, raccolgono tutto questo, un mondo musicale estremamente variegato, difficile da gestire, perché intriso di numerose voci e padroni. Anche se, come si accennava, i testi non esistono, non esiste la parola scritta, ma è solo l’alternarsi spregiudicato dei suoni a dettare legge.

La storia

I Širom sono un trio. Samo Kutin e Ana Kravanja si incontrano per la prima volta nei centri sloveni di musica improvvisata gestiti da Tomaz Grom – nato nel 1972, contrabbassista, compositore e produttore – e da Seijiro Murayama, che oggi vive a Parigi, per anni attivo in Slovenia, maestro di percussioni e batterista di origine nipponica. L’improvvisazione si alterna al minimalismo e in questi corsi predomina la volontà di esprimersi in modo a dir poco originale, cercando di inventare qualcosa che nella musica non si è ancora visto. E fanno centro. Perché i Širom rappresentano proprio questo traguardo: qualcosa che non si è (quasi) mai udito. Samo e Ana formano il duo Najoua, prima di incontrare Iztok Koren e mettere in piedi il nuovo progetto. Partono con la musica folk, mischiando "meditazioni post-rock" e improvvisazione pura. Per raggiungere questo obiettivo si lasciano incantare dalla possibilità di creare non solo un genere diverso, ma anche suoni che l’orecchio umano non conosce. Attingendo anche alla… spazzatura. Da cui racimolano scarti, rifiuti e oggetti dimenticati, allo scopo di forgiare strumenti nuovi di pacca che, certo, nessun liutaio ha mai realizzato. Anche i monitor dei computer possono fare al caso loro!

E così a fianco dei tradizionali violini e chitarre ci sono lire, balafon, ciaramelle, cunbus, ribab, e una miriade di "attrezzi sonori" che non hanno un nome, ma solo una forma e una cassa di risonanza. In tutto una ventina di strumenti. "Io non ho mai frequentato una vera scuola di musica", dice Kutin. "Decisi con il mio fratello gemello di fare di testa nostra ed è così che il primo strumento che ho imparato a suonare è stata una chitarra con una corda sola". E c’è l’ispirazione costante fornita dalla natura, come racconta Memoryscapes (qui in formato integrale ), un cortometraggio che li ritrae in momenti bucolici, attratti dalla metafisica del creato, della vegetazione o dagli animali, immersi nella neve delle montagne o nel verde di una foresta.

"Noi amiamo sperimentare nella natura", dice Iztok, "così quando dobbiamo registrare un album, realmente ci rechiamo in posti remoti dove trovare ispirazione, possibilmente il più distante possibile dai centri urbanizzati: caverne, campi, colline". E dove ognuno porta con s’è un po’ delle proprie esperienze di vita. "La Slovenia è piccola, ma ogni membro dell’ensemble arriva da posti diversi, figli di storie e suoni differenti", dice Kravanja. Sano Kutin viene da Tolminska (Tolmino), Iztok Koren da Prekmurje (Oltremura), al confine con l’Ungheria, e Kravanja è originaria di un villaggio del Carso. E dunque girano soprattutto la terra di origine, facendo tappa di tanto in tanto in Germania (hanno di recente suonato anche a Monaco di Baviera). Una band che proprio dal vivo dà la migliore immagine di sé. E dunque, per chi fosse interessato, sarà ghiotta l’occasione di vederli in concerto martedì 5 dicembre 2017: apriranno per i Tinariwen, a Lubiana.

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