La monotonia della crisi
Se non avesse implicazioni drammatiche, ci sarebbe di che stufarsi. E’ la crisi politica in Albania. Da ormai un anno maggioranza e opposizione polemizzano sulla validità delle elezioni dello scorso 28 giugno
A distanza di un anno dalle scorse elezioni politiche del 28 giugno 2009, l’Albania giace in una crisi post – elettorale che sembra infinita e ingestibile. Per circa un anno il premier Berisha e il suo rivale socialista hanno occupato gli schermi delle TV nazionali, polemizzando sulla legittimità delle elezioni e il riconteggio dei voti delle urne contese, rimanendo ciascuno su posizioni intransigenti. Il risultato è un paese paralizzato, con un parlamento dimezzato, boicottato dall’opposizione. Da circa un anno l’Albania si è fermata ad assistere alla crisi mentre tutti i problemi del paese sono scivolati in secondo piano, la preoccupante crisi economica in primis.
A partire dallo scorso settembre vi sono state frequenti e massicce manifestazioni, nella capitale e in numerosi altri centri urbani, organizzate dall’opposizione, e spesso accompagnate da contromanifestazioni organizzate dal premier Berisha. Dal crollo del regime di Hoxha, una tale mobilitazione non si era mai verificata nel paese balcanico.
Nonostante la massiccia partecipazione alle proteste abbia causato un lungo dibattito sulla capacità dei leader di mobilitare i propri militanti pagandoli, o obbligandoli a parteciparvi nel caso di dipendenti pubblici, l’alto numero di persone pronte a scendere in piazza la dice lunga sullo scontento diffuso che regna nel paese. Probabilmente si sta per entrare in una fase promettente della fragile democrazia albanese, in cui i cittadini combatteranno contro il tipico complesso da sudditi impotenti che ha fortemente penalizzato finora la democrazia del paese.
Anche se in più occasioni politici e analisti avevano paventato il rischio di scontri e violenze tra manifestanti e polizia, e tra manifestanti di opposta fede politica, questi ultimi non si sono mai verificati. Le manifestazioni si sono rivelate esclusivamente una buona valvola di sfogo per lo scontento degli albanesi, anche se nulla ha fatto cambiare idea al premier Berisha, che non solo non si è fatto intimorire dai cittadini in piazza, bensì è stato visto diverse volte affacciarsi alla finestra della sede del governo per salutare gioiosamente i manifestanti.
Il premier ritiene di detenere il potere in maniera legittima, secondo quanto dettano i risultati delle elezioni dello scorso 28 giugno mentre l’opposizione si rifiuta di entrare in parlamento e rifiuta di riconoscere la legittimità del governo Berisha senza prima aver ricontato i voti di alcune urne contestate, che potrebbero ribaltare il risultato elettorale.
Da ormai un anno il conflitto tra Edi Rama, a capo del Partito socialista, e Sali Berisha è caratterizzato da intransigenze e discussioni a distanza. Il tutto attraverso nuove figure che stanno inaugurando una nuova fase della comunicazione politica albanese: i portavoce e i numerosissimi analisti sedicenti indipendenti ma politicamente orientati che spopolano nei talk show di tutte le tv nazionali.
L’insistenza dell’opposizione si è decisamente enfatizzata quando il 30 aprile scorso, 200 cittadini e membri del partito socialista, tra cui molti deputati e personalità pubbliche del paese, hanno iniziato uno sciopero della fame richiedendo la riapertura delle urne contese e le dimissioni di Berisha. Nella storia del pluralismo albanese sono stati diversi gli scioperi della fame organizzati da parte dei politici di opposizione, ma di una tale portata politica e mediatica non se ne erano mai verificati. E’ stato scelto proprio il centro di Tirana, il boulevard principale della capitale, per potervi installare delle tende in cui per circa 30 giorni 200 cittadini hanno deciso di manifestare le loro richieste politiche sotto gli occhi di tutti, creando non poco disagio al già intenso traffico cittadino. Ma nemmeno lo sciopero con cui il premier ha dovuto convivere quotidianamente – dato che aveva luogo esattamente sotto le finestre del suo ufficio – è riuscito a far emergere una soluzione alla crisi.
Ciò che lo sciopero ha invece portato è stata l’attenzione dei cosiddetti osservatori internazionali, che in un anno di crisi e conflittualità soffocante sono stati assenti e diplomaticamente vaghi tanto da meritarsi di essere ridicolizzati in numerosi sketch e barzellette nei programmi di varietà del paese. A molti albanesi è parso inconfutabile il fatto che per l’Albania sembrano essere finiti i tempi in cui gli “internazionali” muniti di neutralità, obiettività e onnipotenza, sbarcavano sul campo calmando le acque una volta per tutte. Questa volta in molti hanno avuto l’impressione di essere abbandonati in mano ai politici capricciosi di Tirana. Almeno sino a quando i media hanno comunicato che lo sciopero dei 200 cittadini socialisti sarebbe terminato, per dare avvio a negoziati con la mediazione internazionale di una trojka diplomatica, che avrebbe chiamato i politici albanesi a Strasburgo.
L’instabilità politica dell’ultimo anno, hanno più volte affermato diversi diplomatici di Bruxelles, nuocerà all’integrazione nell’Ue dell’Albania e rischia di rimettere in discussione persino la tanto attesa liberalizzazione dei visti, prevista secondo molti per il prossimo autunno. Questa è diventata ben presto l’accusa reciproca dei due leader in conflitto, che rimangono però intransigenti, sulle proprie posizioni.
Difficile prevedere cosa accadrà tra la possibilità di un collasso economico-politico, nuove elezioni o un eventuale compromesso. Secondo i media di Tirana i diplomatici internazionali si sono riassestati sulle loro posizioni da osservatori esterni, appellandosi alla necessità di compromessi e ribadendo che la crisi va risolta dai suoi stessi protagonisti.
Nel frattempo l’Albania rimane un paese bloccato, immersa in una crisi economica che seppur taciuta esiste. Nel frattempo per distrarre gli albanesi dalla monotonia dell’infinita crisi post-elettorale, appaiono di tanto in tanto avvincenti iniziative del premier che mirano a rispolverare la guerra civile fratricida che ha avuto luogo durante la Seconda guerra mondiale – per colpa dei partigiani, secondo Berisha – o commemorazioni nazional-religiose di personalità come Madre Teresa di Calcutta, consegnata ormai in pompa magna alla mitologia nazionale.
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