La manifestazione
Di nuovo morti in Kosovo, due, a seguito di scontri tra polizia e manifestanti. Sabato scorso il movimento Vetvendosje, indipendenza, era sceso in piazza per dimostrare contro il piano Ahtisaari. La drammatica cronaca del nostro inviato
"Përpara, përpara, përpara!". Un ragazzo di forse venticinque anni stringe il microfono con entrambe le mani, e ci urla dentro con voce strozzata, mentre al suo fianco un suo compagno, la faccia semicoperta da una sciarpa scura, tiene l’altoparlante in alto sulla testa, nell’aria resa impenetrabile e acida dal fumo denso dei lacrimogeni.
Gli scontri con la polizia, schierata di fronte al palazzo del parlamento di Pristina, sono cominciati da più di un’ora, ma gli attivisti di Vetëvendosje continuano a chiamare a raccolta i manifestanti, a incitarli ad andare avanti, a non mollare. "Avanti, avanti, avanti!", grida il ragazzo, mentre intorno a lui la folla continua a muoversi, a raggrupparsi, a ripararsi sotto le balconate che si affacciano sul viale Madre Teresa e ad indietreggiare ogni volta che i lacrimogeni, prima di ricadere saltellando a terra, segnano parabole scure nel cielo pomeridiano grigio e piovoso .
Un via vai continuo di ambulanze continua a tagliare la folla e a raccogliere i feriti che, a braccia, vengono portati via dalla prima linea, con gli occhi sbarrati, talvolta incoscienti, spesso coperti di sangue. Alla fine se ne conteranno ottanta, di feriti, di cui molti in gravi condizioni. Due di loro, Man Balajt e Arben Xhelalit, moriranno durante la notte nell’ospedale del campo americano di Bondsteel, ma la notizia inizierà a circolare soltanto la mattina seguente. Intorno, si sente il fischio dei proiettili di gomma che la polizia, sia locale che internazionale, continua a sparare. Quasi certamente la morte dei due manifestanti sarà dovuta proprio all’uso di questi proiettili, anche se la causa precisa dei decessi non è stata ancora resa nota in via ufficiale. Anche sette agenti sono rimasti feriti, a dimostrazione dell’intensità dello scontro.
La manifestazione era cominciata alle 14, dopo che i manifestanti si sono dati appuntamento di fronte alla sede di Vetëvendosje (Autodeterminazione), il movimento guidato da Albin Kurti che chiede l’immediato abbandono del Kosovo da parte dell’amministrazione internazionale, la cessazione di ogni negoziato con la Serbia sul tema dell’indipendenza della regione e l’organizzazione di un referendum popolare che sancisca, tramite il voto, la nascita di un nuovo stato.
E’ difficile dire quante siano le persone accorse, e che scandiscono ad alta voce "UCK, UCK!", mentre il camion che trasporta alcuni grossi altoparlanti, e che sarà utilizzato dai promotori della manifestazione come palco rialzato una volta arrivati di fronte allo sbarramento della polizia, si mette lentamente in moto.
Le stime parlano di quattro, forse cinquemila persone. Quello che è certo è che, fin dall’inizio si respira un’atmosfera tesa. Quando chiedo ad alcuni attivisti se posso fargli una foto, mi rispondono di no a muso duro, con fare nervoso e pieno di sospetto. Guardo a lungo i loro volti. Sono giovani, hanno tutti ho quasi poco più di vent’anni, in maggioranza ragazzi, ma ci sono anche alcune ragazze. Facce da studenti, per lo più. Portano una maglietta bianca con la scritta sul petto "Vetëvendosje", e formano, tenendosi per mano sui due lati della strada, il lungo cordone del servizio d’ordine.
Anche tra i manifestanti ci sono molti giovani e giovanissimi. Alcuni tengono in alto bandiere rosse e nere con l’aquila bifronte di Skanderbeg, altri cartelli con sopra scritto "No ai negoziati", oppure "Decentralizzazione = Secessione, Secessione = Guerra", o altri ancora che non riesco a decifrare, ma in cui campeggia la sigla dell’UCK. Ci sono però anche molti adulti, quasi tutti uomini, alcuni anziani con il tradizionale zuccotto bianco, e alcuni personaggi barbuti con al collo una sciarpa, anche quella rossa e nera.
Quando finalmente il corteo si mette in moto, dirigendosi verso il centro della città e il quartier generale dell’Unmik, una scarica di elettricità sembra attraversare l’aria carica di pioggia e di tensione. Fin dall’inizio i manifestanti scandiscono slogan, avanzando a passo deciso verso l’anonimo palazzo del centro di Pristina sede della missione dell’Onu in Kosovo. Non c’è dubbio che, potendo, vorrebbero urlare il proprio malcontento e la propria frustrazione sotto le finestre di quello che ritengono un potere straniero, corrotto, dispotico e coloniale. A sbarrare la loro strada, però, c’è una barriera invalicabile, costituita da un folto gruppo di soldati ucraini dislocati ai lati di tre grossi blindati dipinti di bianco, e più indietro da numerose camionette dei carabinieri paracadutisti italiani dell’Unità specializzata multinazionale (MSU).
Il corteo saluta questo schieramento con un mare di fischi, ma, secondo il piano stabilito, cambia direzione, passando a fianco del Grand Hotel Pristina tra due ali di telecamere, per virare poi a sinistra sul boulevard Madre Teresa. A questo punto l’obiettivo dei manifestanti non può essere nient’altro che i palazzi del governo e del parlamento, e questo significa possibili guai.
Albin Kurti cammina alla testa del corteo. Al suo fianco due donne di mezza età testimoniano con le magliette che portano il fatto di essere parenti, probabilmente madri, di persone scomparse durante la guerra del 1999, alcune migliaia di persone il cui destino resta ignoto e di cui il pacchetto Ahtisaari ha il torto, agli occhi di chi non ha almeno un cadavere da poter seppellire, di non riservare quasi nessuna attenzione.
Mentre avanziamo Kurti sembra molto teso. L’ho conosciuto qualche giorno fa per un’intervista, in cui mi ha assicurato che la manifestazione vuole essere pacifica, ma adesso che lo saluto mi risponde appena, guardandomi con uno sguardo che si perde chissà dove, lontano. Lo rivedrò più volte dopo l’inizio degli scontri, mentre si muove tra il fumo dei lacrimogeni circondato da un gruppo di persone, in cui riconosco alcuni degli altri animatori di Vetëvendosje, molti dei quali feriti. Anche in questo frangente il suo sguardo rimane lontano, incrocia il mio due o tre volte, un sorriso nervoso, ma nessuna parola. Verrò a sapere dalla televisione, più tardi in serata, che è stato arrestato con l’accusa di istigazione alla violenza.
La folla dei manifestanti continua a scandire slogan, avvicinandosi sempre di più a dove, in lontananza, si scorge la statua di Skanderbeg e, più in là, il palazzo a vetri del governo. Mentre faccio alcune foto, sento che qualcuno mi colpisce ad un braccio. Mi giro di scatto. Una giovane fotografa, bionda e minuta, fa un piccola smorfia di disappunto e poi mi dice a mezza voce "Izvini!" ( "scusa", in serbo, N.d.A). Vedo un ombra scendere sul suo volto. "Sorry, sorry, sorry" continua a ripetermi in inglese, e di certo adesso non mi sta chiedendo scusa per il colpo involontario che mi ha dato poco prima. Abbozzo un sorriso e le faccio segno di non preoccuparsi, ma evidentemente c’è chi ha motivi più che concreti per essere nervoso.
Finalmente la manifestazione arriva di fronte al cordone di polizia che sbarra la strada verso i palazzi del governo e del parlamento. In prima fila ci sono gli agenti della polizia kosovara, mentre quelli delle forze speciali dell’Unmik sono, in questo momento, più indietro. Guardo a lungo anche i loro volti. Mi sembrano tesi, ma niente nei loro sguardi impassibili lascia prevedere un epilogo violento. Più tardi si diffonderà la voce che alcuni di loro avrebbero pregato i manifestanti di non forzare la situazione, "perché, ragazzi, abbiamo avuto l’ordine di picchiarvi".
La folla si ferma, si ferma anche il camion con gli altoparlanti, a pochi metri dal cordone di polizia. La maggior parte dei giornalisti mostra il tesserino e passa dalla parte della polizia. Io decido di restare da questa parte della barricata. Mi interessa restare in mezzo alla gente, vedere le loro reazioni, cercare quanto più possibile di capire lo spirito che ha portato le persone in piazza, e d’altra parte, nonostante la tensione, non si ha ancora la sensazione che la situazione possa sfuggire di mano.
Sul palco mobile, cioè sul camion, prendono la parola alcuni oratori. Riconosco Adem Demaci, poi una faccia sconosciuta che, a quello che mi dicono, viene dalla valle di Presevo. Le persone intorno a me ascoltano, ma discutono anche, e animatamente, tra loro. Qualcuno mi dice che il corteo proverà a sfilare davanti ai palazzi del potere, nonostante la polizia. Quando inizia a parlare Albin Kurti, issato sulla parte superiore del camion, si inizia ad avere il chiaro sentore che la situazione può diventare esplosiva. Kurti critica l’Unmik, ma soprattutto il governo kosovaro, e senza mezzi termini. "Thaci muore dalla voglia di fare il primo ministro", "Surroj sogna ancora i tempi di Tito", sono alcune delle invettive che riesco a farmi tradurre. Kurti si rivolge poi anche alla polizia, dicendo che "vi hanno dato in dotazione la maschera perché, quando tornate a casa, i vostri genitori si vergognano di voi".
Il comizio termina tra urla ed applausi, poi seguono due-tre minuti di attesa silenziosa e densa. Alla polizia i manifestanti hanno chiesto di allontanarsi e far sfilare la manifestazione sotto le finestre del palazzo del governo, ma gli agenti devono aver ricevuto ordini precisi, anche a causa dei danni provocati da un’analoga manifestazione di Vetëvendosje lo scorso 28 novembre, nel giorno della festa della bandiera albanese.
La prima fila dei manifestanti si avvicina alle barricate di metallo che la polizia ha posto sulla strada e le abbatte. Forse cercano davvero lo scontro aperto, ma probabilmente non si aspettano una reazione davvero decisa. Sono attimi di grande tensione. Il grilletto è stato premuto, e adesso la situazione precipita in fretta. In seguito manifestanti e polizia si accuseranno a vicenda di irresponsabilità e di aver provocato gli scontri. I manifestanti premono sul cordone della polizia, che indietreggia di qualche metro, poi iniziano gli spari e il lancio dei lacrimogeni, e tutto precipita nel caos.
I manifestanti si rifanno sotto, e dalle prime file iniziano ad emergere i primi feriti, alcuni sono già incoscienti, altri vengono trascinati verso le ambulanze con la faccia coperta dal sangue. Dopo un quarto d’ora una parte dei manifestanti si è allontanata, ma un gruppo consistente continua a muoversi tra il fumo e gli spari e a provare ancora a passare lo sbarramento della polizia.
E’ uno scenario di guerriglia urbana che andrà avanti per almeno due ore, prima sul boulevard Madre Teresa, dove i manifestanti hanno costruito una barricata con i secchioni metallici dell’immondizia, per poi spostarsi più in alto sulla Agim Ramadani, dove una macchina dell’Onu è stata distrutta e rovesciata sulla strada, e un gruppo di manifestanti, sempre sotto il tiro della polizia che spara proiettili di gomma che sibilano intorno alle nostre teste, ha iniziato a lanciare sassi verso le forze dell’ordine. Più tardi, in televisione, ho visto anche i carabinieri, inquadrati nella forza di polizia internazionale, lanciare lacrimogeni e arrestare alcuni manifestanti.
I disordini sono finiti quando è scesa la sera su Pristina, e gli ultimi gruppi di manifestanti si sono dispersi. In quel momento, ancora non si conosce il destino dei numerosi feriti, che sono stati smistati in vari ospedali in tutto il Kosovo, e a quello che si dice, anche a Skopje. La mattina di domenica si verrà a sapere però che ci sono due morti, e anzi una voce persistente, ma poi smentita, vuole che le vittime siano in realtà tre. Quello che è certo è però che alcuni dei feriti rimangono in gravi condizioni.
Quando torno, a sera inoltrata, sul luogo dove sono iniziati gli incidenti, la polizia sta raccogliendo in buste di plastica trasparente alcuni bossoli, che ad un occhio non esperto di cose militari come il mio, ricordano molto più quelli di piombo usati dalle armi da guerra che non quelli, di plastica semitrasparente, che contengono i proiettili di gomma. Provo a fare una foto, ma i poliziotti mi ordinano, con fare perentorio, di lasciar stare. Il giorno dopo, leggo che i manifestanti hanno accusato le forze dell’ordine di aver fatto fuoco anche con armi convenzionali. Se la cosa fosse vera, lo scenario sarebbe davvero inquietante. Ma anche se si trattasse solo di proiettili di gomma, era davvero necessario sparare ad altezza uomo?
Prima di andarmene, proprio sotto il monumento a Skanderbeg, mi fermo a parlare con tre ragazzi di fuori Pristina che sono appena arrivati in città e che, mi raccontano hanno seguito gli avvenimenti della giornata per radio. Sono increduli, arrabbiati. "Non avrei mai creduto che una cosa possibile potesse succedere. Non è giusto che la polizia reagisca così", mi dice Valmir, il più anziano, scuotendo la testa. Gli chiedo se gli avvenimenti di oggi siano positivi o meno per il Kosovo. "Anche se c’è stata violenza credo comunque che manifestare sia stato positivo, perché il mondo tornerà a parlare di noi". Ora ci sono anche due morti, che Vetëvendosje ha ricordato ieri, come martiri, con una fiaccolata silenziosa sugli stessi luoghi degli scontri. Mi allontano pensieroso, chiedendomi, se siano un prezzo accettabile perché il mondo torni a parlare del Kosovo.
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