La guerra tra Chiesa ortodossa e governo sulla Serbia celeste
Vescovi al fianco degli ultranazionalisti, a manifestare contro le politiche del governo serbo sul Kosovo. E il primo ministro Ivica Dačić che sbotta: "Mi chiedo come il nostro buon Dio si sia meritato di essere rappresentato in terra da gente come questa". Un’analisi del nostro corrispondente
“A volte mi chiedo come il nostro buon Dio si sia meritato di essere rappresentato in terra da gente come questa”. Con queste parole il fine settimana scorso il premier serbo Ivica Dačić ha commentato il comportamento di alcuni rappresentanti della Chiesa serba ortodossa (SPC) che hanno preso parte a una manifestazione indetta da partiti e organizzazioni ultranazionalisti, tenutasi nel centro di Belgrado, per protestare contro la politica sul Kosovo portata avanti dal governo.
La loro presenza è stata letta dal governo in carica come un’intromissione diretta dei rappresentanti della Chiesa ortodossa su questioni prettamente politiche.
Il motivo esplicito per la rabbiosa reazione di Dačić è stata la dichiarazione del vescovo Atanasije, ormai in pensione, secondo il quale il premier parla soltanto della politica reale, non gli interessa la “Serbia celeste”, cosa che non interessava nemmeno al premier Zoran Đinđić e “tutti sappiamo che fine ha fatto”.
Velate minacce di morte?
Durante lo stesso meeting il metropolita Amfilohije Radović ha chiamato alla “preghiera per la sepoltura del governo”. La preghiera prescelta viene solitamente utilizzata durante i funerali, pertanto entrambe le dichiarazioni sono state interpretate non solo come un avvertimento a coloro che non sostengono la rappresentazione mitica dei nazionalisti relativa alla “Serbia celeste”, ma anche come un’indiretta minaccia di morte.
Nonostante il riferimento al destino di Đinđić e l’invito alla “preghiera per la sepoltura” lascino un sapore amaro in bocca, non sono stati i soli e più veritieri motivi alla base della reazione del premier Ivica Dačić: l’opposizione decisa e esplicitata pubblicamente che ormai da settimane la Chiesa ortodossa serba sta esercitando contro la politica del governo sul Kosovo.
Disaccordo con questa politica è stato espresso personalmente anche dal patriarca Irinej, dopo la recente seduta del Santo sinodo arcivescovile. Il governo anche allora aveva espresso malcontento, ma non c’era stato uno scontro pubblico delle proporzioni di quello attualmente in corso.
Questo si è probabilmente inasprito perché il governo se forse può tollerare divergenze con la Chiesa sulle strategie politiche adottate, non può permettersi che quest’ultima scenda pubblicamente in campo al fianco di una parte dei suoi avversari politici.
Il patriarca Irinej è stato obbligato a reagire pubblicamente dopo le dichiarazioni dei due vescovi rilasciate nel corso della manifestazione ultranazionalista di Belgrado, ma non li ha giudicati: si è limitato ad affermare che non hanno parlato a nome della Chiesa ortodossa serba. Quindi, non ha preso apertamente e risolutamente le distanze, anzi in realtà ha fatto sapere di avere comunque comprensione per coloro che criticano duramente le misure che il governo sta prendendo rispetto alla crisi kosovara.
La Chiesa serba sta con gli ultranazionalisti
Alla politica governativa sul Kosovo si oppongono pubblicamente solo alcuni gruppi ultranazionalisti, alcuni partiti extra parlamentari, il Partito democratico della Serbia (DSS) dell’ex premier Vojislav Koštunica e i leader di orientamento radicale dei serbi del Kosovo del nord. Le loro azioni incontrano tra l’altro una risposta relativamente debole. Cercando di creare, in contrapposizione alla politica del governo, un nuovo “blocco patriottico” ogni tanto organizzano manifestazioni a Belgrado alle quali partecipano solo poche migliaia di persone.
L’unica organizzazione seria e influente che li sostiene è la Chiesa serba ortodossa, atteggiamento che suscita una logica reazione negativa negli ambienti di governo.
Unendosi apertamente agli ultranazionalisti, pronti a fare di tutto per ostacolare il governo nel tentativo di applicare l’accordo sul Kosovo sottoscritto a Bruxelles, i dignitari della Chiesa praticamente hanno tolto l’abito talare per mostrarsi non solo come ultraconservatori, ma anche come nazionalisti sfegatati e bigotti pronti a scendere a patti anche con i gruppi nazionalisti di orientamento estremamente radicale.
La debole reazione del vertice ecclesiastico al comportamento dei suoi due vescovi indica che l’intera Chiesa ha difficoltà ad uscire dalla presentazione mitica della “Serbia celeste”.
Ma le cose dovranno cambiare perché la semplificazione mitica alla quale sono propensi i vescovi sta diventando un impedimento politico che il governo si trova a dover respingere, perché non può permettersi un allargamento delle proteste su un tema tanto delicato.
Ad ogni modo, il vertice ecclesiastico, patriarca incluso, è ben consapevole che un ulteriore aumento dello scontro aperto con il governo non è una strada percorribile. È evidente che il patriarca Irinej reagendo alla dichiarazione di Dačić abbia evitato di criticare direttamente il premier. E, a ben guardare, ne avrebbe avuto il motivo: non si ricorda infatti un solo caso in cui un alto funzionario della Serbia nei decenni passati abbia criticato così apertamente la Chiesa, osando persino dubitare della lealtà dei suoi vescovi ai principi cristiani e divini.
Gli scandali di pedofilia
Da mesi inoltre i più alti dignitari della Chiesa ortodossa serba sono oggetto di gravi accuse di pedofilia. Il vescovo Kačavenda, che tra l’altro era stato uno dei più seri candidati rivali di Irinej per il posto di patriarca, è accusato di violenze su un ragazzo e sono state anche rese pubbliche registrazioni dei suoi rapporti con un giovane. La Chiesa è stata costretta a pensionarlo ma, come nel caso dei due vescovi durante la manifestazione di Belgrado, non c’è stata una netta condanna dell’accaduto.
Diversi anni fa il vescovo Pahomije era stato portato di fronte al tribunale perché quattro bambini lo avevano accusato, dicendo di essere stati violentati. Alla fine non si arrivò ad una sua condanna. Di recente non viene escluso un nuovo processo a suo carico. Sotto pressione si trova anche il vescovo Filaret, associato sui media serbi a casi di pedofilia. Filaret negli anni novanta ha sostenuto fortemente la politica bellica dei serbi in Bosnia Erzegovina ed è apparso spesso sui media con l’abito talare e il mitragliatore in mano. Allo stesso tempo, sia Filaret che Kačavenda sono persone molto ricche, e sono sempre più insistenti le accuse nei loro confronti di essersi arricchiti in modo illegale.
E’ evidente che i casi di pedofilia e di arricchimenti illeciti sono le carte che il governo può giocare per “disciplinare” la Chiesa e per obbligarla a non essere di impedimento nell’applicazione della politica sul Kosovo. Gli scandali in questione anche prima erano conosciuti dall’opinione pubblica e recavano danni all’immagine della Chiesa. Ma non sono mai stati “letali” perché i media non hanno mai disposto di informazioni dettagliate. Ora le cose stanno cambiando, perché “fonti ben informate” hanno iniziato a dare ai media indizi piccanti sul conto di alcuni dignitari della Chiesa.
E ormai, anche se in un futuro prossimo la Chiesa rispetto al Kosovo dovesse sottomettersi del tutto alla volontà del governo e la ”fuoriuscita” di informazioni sull’operato dei vescovi dovesse fermarsi, il danno subito resta enorme.
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