La Georgia contro la blasfemia
Un controverso progetto di legge sulla blasfemia viene ritirato a seguito delle reazioni provocate sia in Georgia che all’estero. L’iniziativa di un avvocato, Giorgi Tatishvili, riaccende però il dibattito sui diritti civili nel paese caucasico
Ha fatto molto discutere nelle ultime settimane in Georgia un progetto di legge sulla blasfemia che, se approvato, avrebbe previsto sanzioni pecuniarie ingenti per i trasgressori. Il progetto era stato presentato da Soso Jachvliani, membro del partito di governo “Sogno Georgiano”, e aveva creato divisioni all’interno della stessa maggioranza, in crisi di consensi a pochi mesi dalle elezioni politiche di ottobre. Il 2 febbraio, la commissione parlamentare per i diritti umani aveva dato la sua approvazione all’iniziativa di legge, che intendeva prendere di mira e sanzionare “gli insulti al sentimento religioso”. Molti commentatori avevano scorto dietro il progetto, che non incontrava il favore delle minoranze religiose del paese, la longa manus della Chiesa Ortodossa Georgiana. L’iniziativa è stata poi abbandonata a sorpresa lunedì scorso dallo stesso proponente.
È stata soprattutto l’entità delle condanne previste dal progetto di legge a provocare reazioni. Una “offesa contro la religione” doveva essere sanzionata con una multa di 300 lari, oltre 100 euro; il doppio, in caso di recidiva. In caso di “dissacrazione” di un monumento o simbolo religioso, la multa era ancora più alta: 500 lari, e 1.000 in caso di recidiva, pari a oltre 300 euro. Considerando – come ricorda Giorgi Lomsadze – che il salario medio di un georgiano è di 818 lari mensili, si tratta di cifre considerevoli.
In Georgia il sentimento religioso è profondo, e frequenti sono le interferenze fra la sfera civile e quella religiosa. Come nella vicina Armenia, anche qui la devozione popolare e il cristianesimo hanno radici antiche. Secondo una ricerca del 2015 condotta da WIN Gallup International , le due repubbliche caucasiche sfiorano addirittura un record. Sia in Georgia che in Armenia, infatti, il 93% della popolazione si dice religiosa, a un solo punto percentuale dal primato mondiale, che spetta alla Thailandia. Si può così comprendere il retroterra culturale in cui era nato questo progetto di legge, che si proponeva di punire ogni “pubblica espressione di odio contro le organizzazioni religiose, i membri del clero e i credenti, e/o la pubblicazione o la proiezione di materiale che miri ad offendere i sentimenti religiosi dei fedeli.”
La contrarietà di Amnesty International
Il caso aveva destato scalpore anche all’estero. In un documento del 3 febbraio , Amnesty International aveva infatti preso posizione in modo netto contro la proposta di legge. Secondo quanto si legge nel comunicato dell’organizzazione, la proposta rappresentava una grave minaccia nei confronti della libertà di espressione, mettendo in pericolo soprattutto le parti più deboli della società: “La legislazione proposta risulterebbe incompatibile con gli obblighi internazionali della Georgia, [mettendo] fuori legge in modo efficace le critiche ai leader e alle istituzioni religiose, e sopprimendo la libertà di parola su questioni politiche e sociali di attualità, compresi i diritti delle donne, delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali (LGBTI), e delle minoranze religiose”.
Nel documento di Amnesty si fa riferimento in particolare agli articoli 19 e 20 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, un trattato delle Nazioni Unite entrato in vigore nel 1976, che impegna formalmente le nazioni firmatarie (inclusa la Georgia). In questo, si ribadiscono tutte le diverse forme della libertà di espressione, e le eventuali, possibili restrizioni: in caso collida, ad esempio, con la sicurezza nazionale o la salute pubblica. Restrizioni che però – scrive Amnesty – non trovano ragione d’essere nel caso georgiano. Anche la formulazione del progetto di legge era sotto accusa, in quanto definita da Amnesty “vaga e passibile di una vasta gamma di interpretazioni”.
Nell’ultima parte del documento si ricordano vari episodi di intolleranza avvenuti in Georgia e motivati dalla religione. Violenza contro le minoranze religiose – e qui si fa riferimento in particolare a testimoni di Geova e musulmani – ma anche contro i membri della comunità LGBTI. Questi, si ricorda, sono stati in passato oggetto di numerosi casi di violenza, a cui le autorità georgiane non hanno voluto prestare sufficiente attenzione, lasciandoli impuniti.
L’iniziativa di Giorgi Tatishvili
A pochi giorni dalla denuncia di Amnesty, ecco però un altro colpo di scena, che impone all’attenzione generale la questione dei diritti civili. L’avvocato Giorgi Tatishvili ha avviato un’iniziativa per legalizzare i matrimoni gay nel paese. Si tratta del primo caso di questo genere nel Caucaso. L’iniziativa di Tatishvili fa leva sulla presunta incostituzionalità dell’articolo 1106 del Codice Civile georgiano che definisce – a differenza del testo costituzionale – il matrimonio come l’unione di un uomo e di una donna.
Tatishvili cerca in questo modo di scongiurare quello che in molti definiscono come un ulteriore attacco ai diritti civili nel paese. Da tempo si discute infatti in Georgia di una possibile iniziativa contraria, suggerita a suo tempo dall’ex Primo ministro Irakli Garibashvili, cioè di introdurre una modifica costituzionale che definisca il matrimonio come un’unione possibile solo fra un uomo e una donna, ribadendo quanto scritto nel Codice Civile. Una riforma che, come indicato dall’autore della proposta di modifica costituzionale, Zviad Tomaradze, prende ad esempio iniziative analoghe intraprese in Croazia e in Lettonia.
“Ci sono moltissime lesbiche, gay, bisessuali e transessuali fra i membri del parlamento, e se prenderanno questa decisione per ragioni di popolarità, farò i loro nomi”, aveva commentato l’avvocato. Da parte sua, la Chiesa Ortodossa georgiana ha condannato l’iniziativa di Tatishvili, facendo però appello affinché l’avvocato sia posto sotto protezione. I timori per la sua incolumità sono purtroppo fondati, alla luce dei numerosi casi di violenza ricordati anche recentemente da Amnesty, in un paese in cui l’omosessualità e in generale le questioni di genere rappresentano un tabù molto forte.
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