La costruzione dell’altro
Azra Nuhefendić, scrittrice, giornalista e corrispondente di Osservatorio Balcani e Caucaso, ha vinto il prestigioso premio giornalistico internazionale "Writing for Central and Eastern Europe". Pubblichiamo la versione integrale dell’intervento di Azra durante la cerimonia di premiazione, tenutasi a Vienna lo scorso 22 novembre
E’ un privilegio e un grande onore essere qui questa sera ed essere la vincitrice di un riconoscimento così prestigioso.
Vi ringrazio tutti.
Prima del mio intervento vorrei dedicare questo premio a mia sorella Esa: mi fu di supporto quando ero scoraggiata, credette in me quando mi sentivo un fallimento e mi incoraggiò quando ero senza speranza. So che lei sarebbe felice se mi potesse vedere qui questa sera.
Questo premio sarebbe un riconoscimento importante per chiunque, ancor più lo è però per una come me che viene da Sarajevo. Se i responsabili dell’attacco alla Bosnia Erzegovina nel 1992, con l’obiettivo di distruggere il Paese ed eliminare la sua gente, avessero raggiunto i loro obiettivi, io non sarei sopravvissuta, non sarei qui oggi, non sarei stata in grado di far sentire la mia voce in pubblico, in una della capitali culturali più importanti d’Europa, Vienna.
Vi ringrazio tutti.
Ora, vorrei dire alcune parole sull’essere ALTRO. Per due ragioni: innanzitutto perché a mio avviso il processo tendente alla creazione “di un altro”, a mio avviso, sta riemergendo al giorno d’oggi in Europa, e la deportazione in massa dei migranti rom dalla Francia è un esempio estremo di questo. Credo che la creazione “di un altro” sia una sfida seria per l’Europa di oggi e potrebbe esserlo ancor di più per il suo futuro.
In secondo luogo perché, sul piano personale, quando mi hanno definita “diversa”, o ALTRA, la mia vita ha preso un corso che non mi aspettavo e che non volevo. Quel cambiamento iniziò 20 anni fa. Sono ancora diversa, nel mio nuovo Paese, l’Italia, anche se non in modo così drammatico e con nessuna delle conseguenze pericolose che ho subito negli anni ’90.
E’ la cosa più naturale del mondo essere differenti, e direi anche la più benvenuta, non solo per l’umanità ma per l’universo nel suo complesso. E ringrazio Dio che ci ha fatti diversi, che il mondo è pieno di diversità. Questo permette alla nostra vita di procedere, in modo più colorato, più interessante e attraente; il contrario non sarebbe che uniformità e noia.
La diversità, che è un qualcosa di naturale e positivo, non dovrebbe però essere confusa con “la creazione di un altro”, un processo artificiale e che solitamente ha connotati e conseguenze negative.
L’essere diversi diventa pericoloso quando al semplice riconoscimento della naturale differenza umana si combina il pensiero etnocentrico. Questo porta a rappresentare “gli altri” come qualcuno categoricamente, tipologicamente, fondamentalmente diverso.
L’etnocentrismo è la tendenza a vedere la propria cultura come superiore, bella, logica, sensibile e vera, e poi, per estensione, vedere la cultura degli altri popoli come inferiore, non-buona o bizzarra.
In determinate circostanze sociali o storiche, come ad esempio le crisi economiche, tendiamo, o possiamo essere incoraggiati a farlo, a considerare le persone, i gruppi o intere società la cui vita è differente dalla nostra, come “diversi” (che è vero) e incomprensibili (che non è vero) ed utilizzare questo per distanziarli da NOI, e per riconfermare la nostra “normalità”.
Etichettare un individuo, gruppo, od un’intera società come ALTRI ha sempre avuto un obiettivo specifico. Dichiarando qualcuno “altro” si tende ad enfatizzare ciò che lo distingue dalla sua società, dalla sua gente, nazione, gruppo religioso, tribù e via dicendo. E spesso i leader tendono a sfruttare queste dinamiche per scopi politici.
Le recenti guerre genocide in Rwanda e nell’ex Jugoslavia ci ricordano che il processo di “costruzione dell’altro” può essere uno strumento di terrore che porta a odio e violenza multi-generazionale.
Permettetemi di spiegare, dalla mia esperienza diretta, come funziona il processo di “costruzione dell’altro”. Prima della guerra vivevo e lavoravo a Belgrado, in Serbia, dove la maggior parte della popolazione è cristiano-ortodossa.
Non avevo mia avuto alcun problema vivendo a Belgrado prima della guerra. Al contrario, per molti versi mi sentivo meglio lì che nella mia città natale, Sarajevo: avevo un buon lavoro, ero stimata per come lo svolgevo, avevo molti colleghi, amici e conoscenti.
In nessun modo fondamentale ero differente dai miei concittadini di Belgrado, e nessun modo di vestire, cibo, lingua, aspetto fisico, abitudini o mentalità mi distingueva da loro.
Nell’ex Jugoslavia la religione, quella che avrebbe eventualmente potuto far fare una distinzione, non era qualcosa che contava. La maggior parte della popolazione in ex Jugoslavia era atea e coloro che credevano, come Andjelka, allora la mia migliore amica, originaria di una famiglia cristiano-ortodossa praticante, la consideravano giustamente una questione privata.
Quindi, la religione, che sarebbe stata l’unica categoria a rendermi “altra”, prima della guerra, non costituiva una linea divisoria tra me e loro (i serbi) e non forniva la base per nessuna distinzione o azione.
Ciononostante, essendo bosniaca, ho dovuto fare i conti con alcuni stereotipi che venivano applicati a tutti i bosniaci, fossero loro ortodossi, musulmani o cattolici. Nell’ex Jugoslavia noi bosniaci, indipendentemente dalle nostre origini religiose, eravamo considerati persone buone ma un po’ ingenue, divertenti, in parte conservatori, con un buon senso dello humor. Naturalmente potrei possedere tutte o nessuna di queste qualità, ma questo è come generalmente la gente mi considererebbe essendo originaria della Bosnia. Devo sottolineare che questa era l’immagine non di una musulmana di Bosnia, cosa che io sono, ma dei bosniaci in generale.
All’inizio del 1990, mentre i leader e politici avviavano i preparativi per la guerra, iniziò il processo per rafforzare l’identità nazionale serba. La "creazione dell’altro” divenne un imperativo per il senso di identità e unità nazionale e di conseguenza l’esclusione di tutti coloro i quali non rientravano nel NOI divenne cruciale. Quindi, letteralmente in una notte, smisi di essere un’amica, una collega, una vicina, un essere umano. Divenni ALTRA e la creazione dell’altro venne utilizzata per distinguere “me” da “loro”.
L’unica cosa che contava è che ero, originariamente, una bosniaco-musulmana. Il termine arcaico e peggiorativo utilizzato per i bosniaco-musulmani ritornò in auge: venivamo etichettati come “balije” o turchi. Alcuni miei colleghi addirittura smisero di chiamarmi per nome, ma si riferivano a me come “turca”, e questo implicava che venivo da qualche altra parte e conseguentemente che non avevo nessun diritto di vivere in Bosnia, sul suolo europeo.
Nonostante venissi da una famiglia assolutamente non religiosa, nonostante non sia mai stata praticante e non mi sia mai sentita musulmana, qualsiasi cosa ciò significhi, venivo categorizzata come tale. La mia “alterità” era stata costruita e l’unico modo di renderla possibile era di collocarmi in una categoria religiosa, dichiarandomi musulmana, termine che nel mondo d’oggi è spesso associato a fondamentalismo, terrore, nemico, una fonte di pericolo.
Ciò che avveniva a livello individuale era ancora più drammatico in Bosnia Erzegovina, un Paese in cui l’intera comunità di 4 milioni di abitanti veniva sottoposta al processo della “creazione dell’altro”. Come avvenuto nel mio ex Paese, la creazione dell’altro spesso evolve nella demonizzazione e de-umanizzazione di un intero gruppo di persone e può risultare in odio e violenza multi-generazionale.
In quei giorni l’ex leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadžić dichiarava che il processo di “creazione dell’altro” nei confronti dei musulmani bosniaci era un sacrificio vitale che i serbi stavano facendo e che “un giorno l’Occidente sarà riconoscente ai serbi per aver difeso la cultura e i valori cristiani”.
La creazione dell’altro, in casi estremi, ha giustificato la guerra, i crimini di massa, le città assediate, la distruzione, la pulizia etnica, i campi di concentramento, gli stupri di massa di donne e ragazze. E tutto questo, che normalmente dovrebbe provocare disgusto nella gente normale, divenne a loro accettabile perché l’ALTRO era ritenuto colpevole di azioni negative.
In continuazione, a partire dalla guerra in Bosnia, mi si è chiesto quali fossero le differenze tra le genti dell’ex Jugoslavia, come si potesse distinguere l’uno dall’altro. Nessuna differenza evidente o nascosta è necessaria per creare “l’altro”. Da europea, per me, indiani e pakistani sono identici, eppure sono nemici da quasi un secolo.
Chi di noi è in grado di distinguere chi è hutu e chi tutsi in Rwanda? Forse l’esempio più estremo nella creazione dell’altro è il caso della Corea del Sud e del Nord: un unico popolo, due stati diversi creati artificialmente e decenni di un lungo conflitto basato sulla creazione dell’altro.
Torniamo all’Europa, torniamo ai giorni nostri. Vivo in Italia da 15 anni. La mia situazione sociale è gradualmente cambiata ma una costante è rimasta. Vengo ancora percepita come diversa. Penso che rimarrà il mio status per il resto della mia vita. Sono "differente" in Italia, ma quando torno a Sarajevo non smetto di esserlo.
Ma questo va bene, è normale un basso livello di differenza. Ho anche imparato che venire percepiti come differenti non è un privilegio esclusivo delle persone che vengono dai Balcani o da Paesi del terzo mondo.
Preparando quest’intervento ho letto un racconto di una scrittrice americana, Linda Lappin, che vive in un piccolo paese dell’Italia centrale. Anche gli americani, cittadini di uno dei paesi più ricchi del mondo, possono essere “altri”. Scrive:
“Gli atteggiamenti nei confronti degli stranieri, in particolare gli americani, sono sempre in mutamento in un paesino come questo, dove la parola “straniero” viene interpretata nel senso più stringente. Anche persone del paese vicino, qualche chilometro più giù lungo la strada, sono considerate persone che vengono da fuori”.
Se l’alterità rimane a un livello basso, all’interno dei suoi confini naturali, non c’è da preoccuparsi. Come la scrittrice sopracitata sottolinea “l’alterità è solo un’illusione che possiamo facilmente superare”.
Quello che mi preoccupa è però che nell’Europa di oggi, alla quale adesso appartengo grazie alla mia cittadinanza italiana, la creazione “dell’altro” è sempre più frequente. Questa pratica è strettamente legata alle nostre paure. Siamo sempre più terrorizzati dai criminali, dagli omosessuali, dagli immigrati, dagli atei, dalla società multiculturale e multireligiosa, dalla politica, dai politici, dal governo, dall’inquinamento e via dicendo. La società europea moderna è divenuta altamente sensibile ad ogni tipo di paura e quindi è facilmente manipolabile. Gli “altri” sono sempre a portata di mano, sono un facile bersaglio.
Non sto dicendo che l’Europa stia andando verso la guerra, ma per proteggere NOI-noistessi, noi europei potremmo tollerare violazioni di alcuni diritti umani fondamentali – degli altri, ovviamente – o potremmo tollerare un certo livello di aggressione all’altro. Sono una persona sopravvissuta al processo di creazione dell’altro, sono forse più sensibile di altri a questo processo.
Certamente al giorno d’oggi non possiamo permetterci di dire “immigrati tornatevene a casa”, ma il messaggio che si sente, “questa è la nostra terra, amatela o lasciatela”, significa proprio questo e pare accettabile alla maggior parte di NOI. Quel messaggio ricorda l’intellettuale fascista francese Robert Brasillach che, negli anni 30, parlava di “una politica moderata anti-semita”. Nell’Europa di oggi sembra che una “moderata politica/protezione anti-immigrati” sia OK.
Ma questo non va bene, e in una società moderna e civile la creazione dell’altro non dovrebbe mai essere OK.
Per concludere: sono venuta qui accompagnata da due persone giovani. Mia nipote Maša e mio nipote Igor.
Sono fuggiti alla guerra all’età di uno e quattro anni, sono cresciuti in Italia. La loro lingua madre è il bosniaco, ma la loro prima lingua è l’italiano. Preferiscono una buona pizza italiana alla pita, il piatto tipico bosniaco (un atto di tradimento nazionale secondo la loro nonna!)
Igor e Maša sono italiani sotto tutti gli aspetti, anche per la legge. Non diversamente dalla maggior parte dei immigrati di seconda generazione, in passato hanno avuto difficoltà ad accettare che erano anche bosniaci. Col tempo, hanno accettato anche quello.
Questi due giovani, come molti altri in tutta Europa, uniscono il NOI e il LORO. E non vedo alcuna contraddizione se nella stessa persona vi è l’uno o l’altro o entrambi insieme.
Per me rappresentano quell’Europa che da sempre sogno.
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