La Bosnia di ieri
Scarsa la partecipazione al voto in una tornata elettorale che vede una nuova affermazione dei partiti etnici. La Bosnia Erzegovina non cambia, né può cambiare all’interno delle regole stabilite 20 anni fa a Dayton
“Ritorno al futuro”, lo slogan del piccolo partito comunista della Bosnia Erzegovina, ha funzionato. Non per riportare al potere la nomenklatura jugoslava, però, ma quella nazionalista, che ha dominato la Bosnia Erzegovina nei 20 anni trascorsi dalla fine della guerra.
La presidenza
Bakir Izetbegović, figlio del primo presidente del paese, Alija Izetbegović, succede a se stesso come membro bosniaco musulmano dell’ufficio di presidenza. L’elettorato del suo Partito di azione democratica, SDA, dimostra ancora una volta di essere il più disciplinato in campo bosgnacco, offrendo circa 200.000 voti al proprio candidato.
Secondo i dati preliminari diffusi dalla Commissione elettorale centrale, Izetbegović al momento vince infatti con il 33,16%. L’SDA aveva investito ingenti risorse in una campagna elettorale nella quale invitava i bosniaco musulmani all’unità, ed evidentemente l’investimento ha portato i suoi frutti. Izetbegović distanzia di quasi 40.000 voti il magnate dei media Fahrudin Radončić che, nonostante l’appoggio più o meno scoperto di alcune delle principali testate del paese, sconta probabilmente il fatto di avere alle spalle un partito meno radicato sul territorio, con una diffusione certamente meno capillare dell’SDA. I due avversari si sono affrontati a distanza per tutto il corso di una campagna elettorale che, ancora una volta, è stata molto centrata su tematiche nazionali e in particolare sulla corsa a presentarsi come il rappresentante più autentico del proprio gruppo etnico. Mentre ad esempio Radončić si presentava negli slogan come “il bosgnacco di successo”, Izetbegović lo ha rimproverato pubblicamente per non essersi mai recato al Memoriale del genocidio di Srebrenica, e quindi implicitamente per essere un cattivo bosgnacco.
Solo terzo, nonostante alcuni ottimistici sondaggi della vigilia lo dessero addirittura per favorito, è arrivato infine Emir Suljagić, autore di “Cartolina dalla fossa” e già ministro dell’Istruzione del cantone di Sarajevo. Suljagić si era candidato per il Fronte Democratico di Željko Komšić, un partito nato da una scissione all’interno dei socialdemocratici che in parte aveva suscitato speranze, se non proprio simpatie, tra quanti hanno partecipato ai movimenti di protesta contro la corruzione e il malgoverno che hanno attraversato il paese a partire da febbraio di quest’anno. Secondo i risultati – ancora preliminari – Suljagić avrebbe raccolto meno di 90.000 voti. Secondo i dirigenti del Fronte, tuttavia, a parte la sconfitta nella corsa per la presidenza il partito starebbe in generale ottenendo dei buoni risultati, in particolare tenendo conto del fatto che si presentava per la prima volta alle elezioni. Il Fronte ha in ogni caso ha superato il candidato dei socialdemocratici (SDP), il noto giornalista televisivo Bakir Hadžiomerović, e si candida dunque a diventare la forza più rilevante tra le formazioni di orientamento civico, e non etnico.
La sconfitta dei socialdemocratici, finora il maggiore partito con un dna multietnico, anche se di fatto forte soprattutto nella Federazione e in particolare tra gli elettori bosniaco musulmani, è probabilmente ascrivibile all’insoddisfazione dei votanti per i cattivi risultati ottenuti dal partito nei recenti anni al governo. In generale è stata verosimilmente rimproverata all’SDP l’incapacità ad offrire una vera e propria alternativa al modello economico neoliberista e basato sulle privatizzazioni dominante tra le principali formazioni politiche, e ritenuto la causa del dissesto economico del paese dai movimenti di protesta e dal cosiddetto movimento dei Plenum.
Il seggio croato della presidenza va invece all’Unione democratica croata (HDZ) della Bosnia Erzegovina di Dragan Čović, che sconfigge il rivale Martin Raguž, la cui campagna all’insegna del dialogo e della moderazione evidentemente non ha fatto breccia tra gli elettori. Ancora incerta infine la corsa per il seggio serbo. Secondo gli ultimi dati disponibili sarebbe in vantaggio Željka Cvijanović, la candidata dell’SNSD di Milorad Dodik, da quasi 10 anni leader autocratico della parte del paese a maggioranza serba. Lo spoglio delle urne potrebbe però riservare sorprese perché la Cvijanović è impegnata in un testa a testa con il candidato dell’Alleanza per il cambiamento, Mladen Ivanić.
Nella Republika Srpska le elezioni hanno di fatto assunto un significato diverso dal resto del paese, caratterizzandosi come una sorta di referendum pro o contro Milorad Dodik, attuale presidente dell’entità e candidato a succedere a se stesso. Dodik, certamente un abile politico, dopo avere in parte perso il sostegno di Belgrado è riuscito con successo a ottenere l’investitura da Vladimir Putin nel corso di un viaggio pre elettorale a Mosca. Il controllo esercitato sul settore pubblico, sui media e sull’economia dell’entità hanno probabilmente già assicurato al suo partito la riconferma nelle due posizioni chiave della presidenza dell’entità e di membro serbo della presidenza tripartita, ma in questo caso bisogna ancora attendere alcune ore per i risultati definitivi.
Il cambiamento impossibile
Sulla base dei dati preliminari che riguardano l’affluenza, stimata ora dalla Commissione elettorale centrale intorno al 54% dopo alcune precedenti stime ancora peggiori, appare inoltre verosimile che la maggioranza dei partecipanti ai Plenum abbiano deciso di non votare, o di annullare la scheda. Molti infatti sembrano essere i voti bizzarri, le preferenze espresse per i Bijelo Dugme o per l’ambasciatore giapponese a Sarajevo, Hideo Yamazaki, che in un’inusuale dichiarazione ai media locali aveva recentemente detto che il Giappone non riusciva a donare alla Bosnia Erzegovina i 5 milioni di euro che aveva stanziato per l’emergenza alluvioni, perché le autorità locali non firmavano i documenti necessari.
La partecipazione al voto è risultata infatti addirittura inferiore al dato del 2010 (56%), e stride con l’evidente volontà di cambiamento espressa da migliaia di persone che hanno partecipato alle manifestazioni innescate dagli operai di Tuzla a febbraio di quest’anno e poi propagatesi in tutto il paese. Un bosniaco su due evidentemente ritiene ormai impossibile il cambiamento all’interno di un sistema elettorale stabilito su basi etniche 20 anni fa con gli accordi di pace di Dayton, e ritenuto non democratico dalla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo secondo cui viola i diritti delle minoranze e dei singoli individui.
Il risultato di queste elezioni sembra evidente: la Bosnia non cambia. Così stanno titolando anche le principali testate internazionali che hanno seguito la tornata elettorale. La domanda tuttavia è: “Avrebbe potuto cambiare?” Probabilmente no. Le regole di Dayton tendono a penalizzare chi si propone di attraversare gli steccati, o chi tende ad abbandonare il sentiero ormai noto per affermare una nuova visione di un paese ricco di storia, cultura, risorse naturali, ma impoverito dalla etno politica.
In assenza di una nuova iniziativa diplomatica internazionale, in grado di cambiare le regole del gioco, nelle prossime settimane e mesi andrà in scena il consueto balletto di improbabili alleanze e governi evanescenti, impegnati nella nomina dei dirigenti pubblici, mentre aumentano l’esposizione verso l’estero e il paese è ormai fanalino di coda nel percorso di integrazione europea dei Balcani occidentali. Oppure andranno in scena nuove proteste, questa volta più disperate.
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