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L’Esercito turco sotto il “Martello”

365 imputati, tutti militari dell’esercito turco, accusati del tentato golpe del 2003, nome in codice “Martello”. Venerdì scorso la sentenza: 325 le condanne, tra cui alti ufficiali. In attesa dell’appello, c’è chi definisce il processo la "Norimberga turca" e chi solleva dubbi e critiche

24/09/2012, Fazıla Mat -

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Ha colpito duro, proprio come un martello, la sentenza emessa venerdì scorso sul processo “Balyoz” (“martello”, appunto, in lingua turca): 325 condanne dopo un procedimento durato 21 mesi. All’udienza finale di venerdì gli imputati erano 365, di cui 250 in stato di arresto cautelare: tutti militari dell’esercito turco tra cui numerosi alti ufficiali, alcuni ancora in servizio. L’accusa: aver preso parte nel 2003 ad un tentato golpe (nome in codice “Balyoz”), volto a rovesciare il governo conservatore e filo-islamico dell’AKP (Partito della giustizia e dello sviluppo) oggi al suo terzo mandato.

I tre alti ufficiali ritenuti i principali responsabili del piano, i generali in pensione Çetin Doğan e İbrahim Fırtına e l’ammiraglio in pensione Özden Örnek, rispettivamente ex comandanti delle forze di terra, dell’aeronautica e della marina, sono stati condannati a scontare l’ergastolo in condizioni aggravate. La pena è stata però subito commutata in 20 anni di prigione, dato che il “tentato golpe” restò “incompiuto”. Altri 322 imputati hanno ricevuto pene carcerarie dai 6 ai 18 anni, assolti solo 36 militari.

La storia

Il piano “Balyoz” fu reso pubblico nel 2010 dal giornalista Mehmet Baransu del quotidiano indipendente Taraf il quale, grazie ad una segnalazione anonima, venne in possesso di numerosi documenti e registrazioni che riportavano l’intenzione di dare vita ad una serie di azioni sovversive, tra cui attentati dinamitardi a due moschee, l’abbattimento di un jet turco nelle acque territoriali greche per fomentare venti di guerra e l’arresto di diversi giornalisti. Il tutto finalizzato a dimostrare l’incapacità del governo di gestire la situazione e legittimare un intervento dell’esercito.

Dopo la lettura della sentenza tra le urla, i pianti e le imprecazioni dei parenti degli imputati rivolti ai giudici, l’ex generale Doğan ha affermato: “Ho servito questo paese per 50 anni. Ho numerose medaglie, ma quella che ho ricevuto oggi è la più preziosa” sostenendo di finire in galera “per la Patria”. A fine udienza, le ultime amare parole degli imputati sono state rivolte alla sede del Capo di stato maggiore, accusato di aver abbandonato i propri “camerati” sotto processo: “Noi veniamo gettati in galera e loro stanno comodamente seduti sulle loro poltrone…vergogna”.

I militari imputati hanno sempre respinto le accuse sostenendo che il piano “Balyoz” fosse solamente un seminario di addestramento militare per affrontare situazioni di emergenza, ma ciò non è bastato a convincere la procura di Istanbul, che nel febbraio del 2010 ha avviato l’inchiesta. I precedenti colpi di Stato armati del Paese (nel ’60, ’71 e ’80), insieme all’ostilità dei principali indagati (il generale Doğan fu ad esempio coinvolto anche nel golpe bianco del 1997 che fece cadere il governo dell’islamista Erbakan) nei confronti dell’AKP, considerato dagli ambienti militari più ortodossi come una minaccia alla laicità dello Stato, costituivano per la corte validi precedenti per un presunto piano di golpe.

Critiche alla conduzione del processo

Tuttavia il modo in cui è stato condotto il procedimento giudiziario è stato (e continua ad essere) oggetto di numerose critiche. In attesa della motivazione della sentenza, che dovrebbe essere comunicata entro cinque mesi, restano molti punti interrogativi sullo svolgimento e la credibilità dell’intero processo. Ad esempio, diversi militari condannati hanno dimostrato che si trovavano all’estero per delle missioni nel periodo di tempo cui è stato loro ascritto il reato. Un colonnello, che ha ricevuto 16 anni di reclusione, si trovava in Kosovo nelle fila del contingente della NATO; un ammiraglio alla base EURO-MARFOR, a Roma; un altro colonnello era occupato con delle riprese televisive (della rete statale) di un programma di immersione subacquea. Ci sono poi le perizie sulla data di produzione di alcuni documenti rilasciate da esperti internazionali che non corrispondono a quelle indicate dall’Istituto scientifico statale (TÜBİTAK), su cui si è basato il verdetto. Gli avvocati non avrebbero inoltre potuto presentare alcuni testimoni e nemmeno tutta la linea di difesa.

Critiche le voci dal partito principale d’opposizione, il CHP (Partito repubblicano del popolo) che hanno definito il processo come “politicizzato”: “Siamo contro tutti i golpe di qualunque provenienza, ma non accettiamo che in Turchia non ci sia un processo equo, che si mettano in prigione persone senza dare loro la possibilità di difendersi. Non accettiamo tribunali con poteri speciali”, ha affermato il leader del partito Kemal Kılıçdaroğlu.

Per il deputato del BDP (Partito della pace e della democrazia) Hasip kaplan si tratta “di una decisione che farà molto discutere. Non si può dire che in questi tribunali con poteri straordinari la giustizia funzioni a dovere. È impensabile aspettarsi decisioni eque. Gli stessi tribunali potrebbero condannare tutti i membri dell’AKP per aver infranto la costituzione”. Non sono mancati nemmeno i commenti da Ankara: mentre il premier Tayyip Erdoğan ha ricordato che il processo deve ancora affrontare l’appello, da cui ha auspicato ne scaturisca una “decisione giusta”, per l’AKP la sentenza ha segnato la “fine del periodo dei golpe”.

L’opinione di giornalisti e analisti

Il direttore di Taraf Ahmet Altan, non ne è però così sicuro. “I fautori del piano ‘Balyoz’ sono stati puniti, ma non siamo riusciti a creare un ‘sistema democratico’”, scrive Altan. “Dal massacro di Uludere [dove a dicembre del 2011 34 civili sono rimasti uccisi in un’azione dell’aeronautica militare turca, perché scambiati per membri del PKK nrd] stiamo assistendo a troppi avvenimenti che ci lasciano molto scettici […] L’esecutivo dell’AKP non ha cambiato il sistema di questo Stato marcio […] Essersi assicurati il controllo del Capo di Stato maggiore non significa avere organizzato l’esercito secondo i canoni di democrazia e stato di diritto. Nessuno si può considerare al sicuro finché non verrà ripulita fino in fondo l’eredità sanguinaria che ci ha lasciato il golpe del 12 settembre 1980”.

Per numerosi opinionisti, con l’avvento al potere dell’AKP l’ingerenza dei militari nella politica ha subito un importante ridimensionamento. Un passo considerato importante in questo senso è stato compiuto nell’agosto del 2011 quando è prevalsa la volontà del governo contro quella dei vertici militari sulle nuove nomine dell’esercito, inclusa quella del nuovo Capo di Stato maggiore. Il processo “Balyoz” è indicato da diversi osservatori come una pietra miliare, la prima volta (almeno in maniera così estesa) in cui dei militari sono stati processati e puniti per aver tentato di compiere un golpe. L’opinionista di Radikal Cengiz Çandar l’ha addirittura definito “la Norimberga della Turchia”.

Tuttavia, i dubbi sollevati sul procedimento gettano un’ombra sulla sua credibilità, come già accaduto in altri maxi-processi in corso in Turchia. Primo fra tutti, il processo “Ergenekon”, considerato la “matrice” di Balyoz e condotto contro un’ “organizzazione segreta ed eversiva” che “minaccia” il governo (in questo caso, composta non solo da militari come in “Balyoz”). A finire nella sua lista degli imputati, per aver espresso critiche al governo, sono però stati anche numerosi giornalisti. Una situazione analoga si trova anche nel processo KCK (Unione delle comunità del Kurdistan) che vede agli arresti migliaia di politici e attivisti curdi.

Il problema, come sottolinea Amberin Zaman nella sua rubrica sul quotidiano Habertürk, consiste anche nel fatto che alcuni settori della società turca, che denunciano a gran voce le ingiustizie del processo ai militari, “quando si tratta di vedere le stesse ingiustizie nei processi ‘Ergenekon’ o ‘KCK’ passano a tutt’altro registro. Quando si tratta dei generali diventano accesi garantisti, ma se sono i curdi ad essere in causa sono i primi a dire ‘per loro è ancora poco’”.

“La Turchia non è più un Paese gestito e modellato dai militari”, continua la giornalista. “C’è ancora molta strada da fare, come mettere la rappresentanza dello Stato maggiore alle dipendenze del ministero della Difesa e porre sotto il controllo dei cittadini le spese militari”.

“Considerando che la Turchia ha avuto tre colpi di stato durante la Guerra fredda, il fatto che militari accusati di aver complottato un golpe vadano a processo e siano condannati può sembrare un segno dell’avanzamento democratico” commenta la sentenza Murat Yetkin su Radikal, sottolineando che “questo però vale solo se la legge funziona bene e rapidamente e la giustizia è veramente giusta”.

Il giornalista poi conclude: “È inevitabile che questa decisione abbia delle ripercussioni in politica. Possiamo affermare che, con la guerra in Siria alle porte e gli attacchi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) aumentati in modo esponenziale, questo verdetto del tribunale sarà causa di nuove tensioni ad Ankara”.

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