L’epopea gitana dei Taraf de Haidouks
La fine del regime di Ceaușescu, nel dicembre 1989, coincide con il battesimo ufficiale della band. In 25 anni di brillante carriera i Taraf de Haidouks hanno prodotto oltre 300 dischi di ottimo livello, senza dimenticare le origini di strada e la tradizione secolare della musica gitana
Gli haidouks erano gli antichi banditi della Romania feudale, una sorta di Robin Hood della Valacchia che si nascondevano nelle foreste e al momento opportuno assaltavano tutto ciò che poteva rinfoltirgli le tasche. Ebbene, proprio da questa lontana realtà sociale prende il nome una delle band "tzigane" più interessanti degli ultimi vent’anni: i Taraf de Haidouks.
Sul loro conto si sono sprecati innumerevoli commenti e complimenti. Lo sanno gli italiani che hanno potuto assistere a qualche loro concerto, come il bellissimo show tenutosi a Savona il 9 agosto 2013, in occasione del "Santuario del Jazz" (qui un piccolo assaggio); ma anche chi segue uno dei più acclamati attori hollywoodiani, Johnny Depp, che così descrive l’ensemble musicale: "Per me rappresentano un modello per affrontare la vita, malgrado tutto ciò che hanno dovuto affrontare. Il razzismo contro i nomadi esiste da secoli ed è vivo tutt’oggi. Queste persone fanno una musica che esprime gioia intensa, hanno il dono di farti sentire vivo. Sono alcune delle persone più straordinarie che abbia mai conosciuto". Altre parole di stima sono giunte negli anni da Yehudi Menuhin, storico violinista; Pina Bausch, coreografa e ballerina tedesca; e dal Kronos Quartet, quartetto d’archi fondato nel 1973 dal violinista David Harrington. Lo stilista nipponico Yohji Yamamoto li ha invece invitati per allietare i suoi show a Parigi e Tokyo.
Basterebbero questi nomi a illuminare il cammino dei Taraf de Haidouks, ma vale la pena conoscere un po’ più a fondo questa talentuosa band, nata in un quartiere di Clejani, fra i centri della Romania (e dell’intera Europa) dove si concentra la più alta densità di musicisti. Qui si sono specializzati moltissimi lautari, artisti che parafrasano alla perfezione i pentagrammi dell’antico popolo rom. Talentuosi strumentisti, che spesso non sanno leggere la musica, ma suonano alla perfezione violini, fisarmoniche, clarinetti, cymbalon. Sempre in gruppo, taraf è, infatti, la parola che li contraddistingue, indicando tradizionalmente ensemble musicali di tre, otto, dodici musicisti, in voga in Romania e in Moldavia da almeno cinquecento anni.
La fine del regime di Ceaușescu, nel dicembre 1989, coincide con il battesimo ufficiale della band. Non si sa bene quanti siano gli elementi del gruppo. Partono in dodici, ma a più riprese il numero di partecipanti lievita fino a sfiorare le trenta persone. La band si gonfia e si sgonfia periodicamente, come una grande famiglia. Anche l’età è un concetto arbitrario, si va dai venti agli ottanta anni. Nei venticinque anni di carriera, quattro dei componenti originari (Ion Manole, Ilie Iorga, Nicolae Neacsu, storica voce e violino, e Dumitru Baicu) scompaiono, ma il loro posto è preso dai figli o da comprimari che da sempre ruotano intorno all’ensemble.
Sono molto bravi, ma anche fortunati. Durante il cammino iniziale incontrano Laurent Aubert, etnomusicologo svizzero, attualmente direttore dell’Ateliers d’ethnomusicologie (ADEM) di Ginevra, da lui fondato nel 1983. E hanno l’appoggio di due musicisti belgi, Stephane Karo e Michel Winter, che vagabondando per la Romania si innamorano della loro proposta artistica. Grazie al passaparola e alla spinta mediatica dei tre occidentali, il gruppo romeno fa breccia in Europa, affascinando gli ascoltatori del vecchio mondo con un sound che per decenni s’era udito solo all’interno dei confini della Romania. Nel 1991 sono pronti per il debutto discografico ufficiale per l’etichetta di Bruxelles, Crammed Discs, all’attivo oltre trecento dischi di ottimo livello.
Il disco s’intitola Musique des Tsiganes de Roumanic. E’ un lavoro affascinante, che valorizza molte culture musicali, non solo romene. Ci sono ballate medievali, ma anche rimandi alla musica turca, ai Balcani, e naturalmente al popolo gipsy che lasciò l’India poco dopo l’anno Mille per intraprendere un lungo viaggio che non si è ancora esaurito. Si apre con il ritmo di "Rind de Hore", si chiude con la classicheggiante "Indiaca".
L’album è accolto favorevolmente da pubblico e critica. La band inizia a girare per l’Europa, dove il loro calore, la capacità di coinvolgere, avvicina subito un esercito di fan. Suonano nei maggiori festival – Montreaux, Womad, Bourges – ma tenendo i piedi per terra, non si montano la testa e non dimenticano la loro vera scuola: la strada. Nei momenti liberi tornano a fare i busker, suonando in piccoli bar o stradine pittoresche. Nello stesso anno incontrano il regista algerino Tony Gatlif che sta per girare Latcho Drom. L’intesa immediata e perfetta sfocia in una stima reciproca che dura ancora oggi.
Il tema del banditismo romantico ed errante torna nel 1994 con il secondo disco della band, Bandits d’honneur, chevaux magiques et mauvais oeil. Altre bellissime canzoni come la celebre "Spune, Spune, Mos Batrin", "Hora Din Caval" e "Azi Eram Frumoasa, Juna". Nel 1998 arriva Dumbala, Dumba, nel 2001 Band of Gypsies, nel 2007 Maskarada, con brani di Bela Bartok, Aram Khatchatourian e Albeniz. C’è spazio anche per un paio di dischi dal vivo e un lavoro con la Kocani Orkestar, storica band macedone, nel 2011; e altre collaborazioni cinematografiche con Lucian Pintille (Termidus Paradis), Radu Mihaileanu (Train de vie), Sally Potter (The Man Who Cried).
L’ultima fatica, di quest’anno, si intitola Of Lovers, Gamblers & Parachute Skirts, ed esce in concomitanza con il venticinquesimo anno di attività della band. E’ un autentico ritorno alle origini, ai ritmi e al sound che aveva contraddistinto i loro primi dischi, così intrisi dal mistero della lautari music. Coinvolte figure come Tsagoi, superbo cantante, degno erede delle vecchie voci della band; Gheorghe Manole, figlio di Ion Manole; e Viorica Rudareasa, la donna che a suo tempo cantò una delle più celebri canzoni del gruppo, "Dumbala Dumba". Una bellissima lezione di musica: tre stelle per il Financial Times, quattro per il Guardian, cinque per OBC.
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